L’amico di famiglia

Frammenti di un cristallo spezzato
di Emanuele Boccianti

 
  Italia / Francia, 2006
di Paolo Sorrentino, con Giacomo Rizzo, Laura Chiatti, Gigi Angelillo, Fabrizio Bentivoglio


Geremia Cuoredoro si cura l’emicrania con patate e cotone; Geremia Cuoredoro vive in una casa fatta di vecchiume e penombra stantia; è brutto e maleodorante. Geremia Cuoredoro, ovviamente non ha il cuore d’oro: è avaro in maniera dickensiana, è meschinamente ricco, e fa l’usuraio. Geremia De’ Geremei, detto da sé medesimo Cuoredoro, è il nuovo coniglio schizzato via dal cilindro magico di Paolo Sorrentino. Il cilindro si chiama L’amico di famiglia, e segna a nostro avviso lo stato dell’arte della regia in Italia, almeno da certi importanti punti di vista. Il regista de L’uomo in più e de le Conseguenze dell’amore compie un ulteriore passo avanti nel personale processo di raffinazione del raccontare per immagini, consolidando uno stile, regalandoci un altro grande esemplare del suo bestiario umano e ponendo, con ogni probabilità indirettamente, un quesito importante.
Lo stile: un cristallo perfettamente molato e lavorato per ottenere una miriade di facce, alcune piccole o piccolissime, in cui guardare per scorgere l’affannoso, a volte grottesco dimenarsi di un campionario umano sempre più singolare. Il casting è un operazione pregevole di ribaltamento delle aspettative: un grande attore (Bentivoglio in versione country disperata: vive in una roulotte tappezzata di donne nude come l’officina di un elettrauto e si veste come Kit Carson) che diventa un comprimario, e un caratterista (Giacomo Rizzo) che fa il protagonista. E tutto questo raccontato attraverso un decoupage narrativo che già dai titoli di testa si annuncia come confezionato in una forma eterea, videoclippata (ma in senso positivo), avvolto in quella musica elettronica a volte calda (ancora Lali Puna, Notwist, il compositore italiano Teho Teardo, più adatto del Catalano delle Le Conseguenze alle atmosfere meno thrilling di questa vicenda) altre volte più adrenalinica (LCD Soundsystem) che contribuisce a fare della narrazione un inanellarsi di immagini rapide, come di obiettivi che velocemente si aprono e si chiudono, pulsando sensazioni e visioni rarefatte, accostate tra loro più per procedimento metonimico che per richiami metaforici. È un gioco un po’ onirico di musiche fatte di immagini e di immagini dipinte con la musica.
L’esemplare: Giacomo Rizzo diventa sotto i ferri del chirurgo-demiurgo un animale carico di oscuro, dolente e repellente magnetismo. Il suo bruttume, il suo rapporto morboso e ossessivo con i soldi, con la gente, con la madre malata, con tutto; ma anche la sua ironia e autoironia, il suo vezzo per l’eloquio, per l’arguzia magari non proprio fine ma d’effetto, in egual misura rivolta come un‘arma contro se stesso e contro gli altri. Ogni frammento di questo freak originalissimo è concepito prima di tutto sulla carta per suscitare una coppia contrastante ed efficacissima di emozioni, attrazione e repulsione, risata e brivido, disgusto e divertimento. Rizzo, come già Servillo, risponde perfettamente, è perfetto per l’alchimia umana proposta da Sorrentino, che cerca i toni forti e li tempera col grottesco, indorandoci la pillola dell’abiezione fino a farcela mandare giù con un sorso d’acqua di rubinetto - chè altro non vuole offrirci - e con una risata sghemba, salvo poi il retrogusto di sudore acido che subito ci torna in bocca. Tutto questo ensemble di aromi sgradevoli e ironici funziona a dovere, e Geremia è il nostro più vivido ricordo, anche giorni dopo la visione del film.
Il quesito: se questo è il trend del cinema sorrentiniano, che propone un continuo processo di stilizzazione della parabola narrativa, disgregandola (e segregandola) in frammenti come flash catturati nell’occhio dello spettatore, attivando tutta una serie di microscopiche sensorializzazioni a catena (luce-ritmo-odore-sapore), quale sarà il destino della storia, intesa come orizzonte di senso non sensoriale, capace di attivare non solo performance sinestetiche ma coinvolgimenti di altra natura in chi guarda? Intendiamo: se Antonio Pisapia e ancora e magari soprattutto Titta Di Girolamo sono capaci di imporsi col loro vissuto e vivibile di personaggi come entità morali, con le loro scelte, la loro capacità di opporsi ad un genoma inizialmente scritto come definitivo per loro, ribaltando destini, decomponendo strutture narrative che divengono liquide per il movimento delle menti, oltre che dei corpi e degli istinti; ebbene quale destino possono aspettarsi di avere i futuri freak sorrentiniani, se il signor De’ Geremei, all’interno di quel pregevolissimo gioco di caleidoscopi infranti, ha la sola libertà di mostrarsi, esibirsi, e ritornare sempre e sempre quello che è dopo il finto movimento dell’innamoramento, debole motore narrativo innescato dall’apparire della bianca - diafana - Laura Chiatti?
Sorrentino non fa segreto di essere partito ancora una volta dall’idea del protagonista, e dalla sua immediata incarnazione in un attore, per la genesi della storia. Né segreto è il suo aver amoreggiato lascivamente con il personaggio per tutto il film, il suo averlo accarezzato ancora e ancora con la macchina da presa, lasciandolo libero di fare ed essere, situazione dopo situazione, mentre di volta in volta quei frammenti di vita simulata si accumulavano sulla celluloide, sbrigliati, anarchici, molteplici ed eccessivi, decimati successivamente quando veniva il momento di ri-costruire la vicenda, di rielaborare l’intelaiatura dei fatti. E questo si vede, purtroppo: le code di racconto si notano per assenza, se ne lamenta la latitanza; alcuni personaggi che dovrebbero gravitare intorno a Geremia, in realtà, privi dell’aggancio orbitale acquistano velocità di fuga e sfuggono via in caduta libera, mancando la funzione di essere vertebre della sua spina dorsale.
Così, si diceva, nel ricordo dell’Amico di famiglia resta solo lui, l’amico di famiglia appunto, però, ancorchè bellissimo, è un cristallo freddo, parco d’umanità da raccontare, e l’avarizia è da imputare, stavolta, al suo creatore.