American dreamz

L’idolo è un terrorista imbranato
di Piero D'Ascanio

 
  Id., Usa, 2006
di Paul Weitz, con Hugh Grant, Dennis Quaid, Mandy Moore, Willem Dafoe


Che i due fratellastri Paul e Chris Weitz fossero una coppia da tenere d’occhio l’avevamo già capito ai tempi del loro secondo film, quell’About a boy da loro prodotto, scritto e diretto, commedia garbata nella quale regalavano a Hugh Grant uno dei personaggi più aderenti al “physique” indolente e sbarazzino dell’attore. Nell’opera successiva, del 2004, Paul prendeva in mano le redini artistiche, lasciando a Chris quelle produttive, e In good company si rivelava ancora un buon lavoro - particolarmente azzeccato e ben diretto il cast, tra cui spiccava il giovane Topher Grace - seppur all’interno di un ambito di genere americano assolutamente “medio”. In questo American Dreamz i due mantengono la medesima formazione produttiva, e si portano dietro dal film precedente Dennis Quaid, faccione hollywoodiano che deve molto, in questo altrimenti grigio scorcio di carriera, al suo ultimo dittico “leggero”: qui, l’attore si trova ad interpretare addirittura il Presidente degli Stati Uniti, in una esilarante e corrosiva versione in crisi esistenziale. Il protagonista invece torna ad essere Hugh Grant, nei panni di un personaggio che la star non valorizza particolarmente, vivendo - ci pare - un pò furbescamente di rendita.
C’è da dire subito che American Dreamz gioca su un terreno facile, quella della satira al vetriolo della televisione americana. La facilità dell’operazione deriva dal tipo di format messo alla berlina nella vicenda, quello dei talk-show stile “saranno famosi” e compagnia bella, programmi che sembrano essi stessi una satira dell’idiozia di chi li concepisce. In particolare, il film prende di punta un celeberrimo talk-show statunitense, “American Idol” - fin troppi sarebbero, ahinoi, i corrispettivi italiani - e ne mette in ridicolo, attraverso il programma condotto nella finzione da Grant, l’ideologia aberrante che ne è alla base, quella della notorietà a tutti i costi, del dare spettacolo di sé a dispetto - anzi, in virtù - della mancanza di qualsivoglia tipo di talento artistico.
Due, a nostro avviso, sono le carte che riscattano l’operazione dall’ovvietà, rendendola invece molto interessante: in primo luogo, l’utilizzo, da parte degli autori, degli stilemi stessi della cultura pop che animano le trasmissioni di questo genere, anche nelle scene ambientate fuori dal rutilante studio del programma “American Dreamz” (in questo, ancora bravissimo il direttore della fotografia Robert Elswit); in secondo luogo, l’affetto di Weitz per le “vittime” della realtà che rappresenta, e cioè i giovani concorrenti, tratteggiando i quali l’autore depone lo stiletto che invece usa, ad esempio, sbozzando gli insopportabili ritratti delle famiglie delle aspiranti star, o del personaggio stesso di Grant.
La vicenda del film è estremamente lineare, e segue la produzione del programma che dà il titolo alla pellicola, dalla ricerca dei giovani “talenti” - propugnata dal conduttore Martin Tweed sotto questi auspici: “Parlo di umani. E per umano intendo imperfetto. E per imperfetto intendo strano. Trovatemi degli strani!” - allo svolgersi delle esilaranti eliminatorie, fino alla serata finale, in cui - alla presenza di un Presidente USA a caccia disperata di visibilità pubblica - verrà eletto il vincitore. Ed è proprio in questa linea narrativa parallela, a cui si è già più volte accennato, la terza carta vincente del lavoro di Weitz: nel film il capo dello stato è ritratto come una figura profondamente depressa, annoiata, stufa di vivere prendendo parte ai mille impegni di lavoro e mondani a cui è ovviamente costretto a partecipare. Soprattutto, il Joe Staton del film è stufo di dover curare continuamente la sua immagine pubblica, e quindi passa intere giornate in vestaglia, chiuso in camera da letto; quel che è peggio, inizia a leggere giornali progressisti, facendosi un’opinione propria (!) sui fatti del mondo, cosa che allarma terribilmente il suo staff e il suo Consigliere personale, grande burattinaio che agisce nell’ombra, eminenza grigia a cui presta volto e anima uno straordinario Willem Dafoe. Proprio dalla volontà di riscattare l’immagine di un Presidente che non si fa vedere in pubblico da mesi nasce l’idea di proporlo come giurato d’onore alla serata finale di “American Dreamz”, programma seguito ogni sera da decine di milioni di telespettatori; le conseguenze saranno imprevedibili, e la storia ci riserva un finale assolutamente a sorpresa.
Niente paura: il film non va così a fondo da destabilizzare l’establishing dello spettacolo popolare americano. Del resto, tutto è sempre organico e funzionale al sistema, tanto le critiche quanto gli anticorpi alle stesse. Ma American Dreamz ha il carattere spigliato dell’opera indipendente - prodotto dalla società degli Weitz - e un passo assolutamente vertiginoso nel metter nel calderone tutto, dalla politica interna alla guerra in Iraq, dalle soubrette “facili” ai conduttori doppiogiochisti fino - e non ultimo - allo stesso terrorismo di matrice islamica. E soprattutto diverte, anche se spesso la risata che ne viene - non potrebbe essere altrimenti - è una risata verde. Ben venga.