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el Abrazo partido,
Argentina, 2003
di Daniel Burman, con Daniel Hendler, Sergio Boris,
Adriana Aizenberg
Cè il peso dellassenza nellultimo film dellautore
di Aspettando il messia, Daniel Burman; cè
il peso di una mancanza prolungata e di una solitudine voluta.
Giudicata la miglior sceneggiatura al festival di Rotterdam, la storia
scritta con laiuto di Marcelo Birmajer, è quella di unattesa
(sospesa) e di una riconciliazione (scontata).
Ariel, interpretato dal premiato Daniel Hendler (Orso dargento
come miglior attore al Festival di Berlino 2004), è un ragazzo
confuso alla ricerca della propria identità.
Figlio di Sonia ed Elias, ebrei praticanti di origine polacca emigrati
a Bueinos Aires durante il secondo conflitto mondiale, Ariel ha sempre
vissuto solo con la madre ed il fratello dopo che il padre, figura avvolta
dalla leggenda, li ha abbandonati per andare in guerra. E non è
più tornato.
La guerra, appunto, raccontata dalle vetrine di una galleria commerciale
come non se ne vedono in Europa, appare lontana e antica, vecchia come
vecchio è diventato il padre che ancora non cè;
così come vecchia è rimasta la nonna che invece ancora
cè.
Lonesta rinuncia alla narrazione fluida degli eventi e al principio
di causa-effetto cui ci ha abituato tanto cinema made in Hollywood,
consente allocchio del regista e a quello dello spettatore di
entrare appieno nelle situazioni e di scrutare impudentemente i personaggi,
i loro gesti, le loro espressioni.
Daniel Hendler, costantemente preso alla sprovvista, non
abbandona mai il broncio delladolescente incazzato e non dimentica
neppure per un minuto che il suo è un personaggio in fieri.
Storie di negozianti e conoscenti raccontate con il tono dimesso, ma
ironicamente pungente di chi ha già preso le distanze intellettuali
da quei luoghi ma ha conservato vivo il ricordo emotivo di ciò
che rappresentano.
La madre che prepara lo stesso dolce da ventanni e custodisce
abilmente un gran segreto, la nonna che possiede il passaporto polacco
e faceva la cantante prima della guerra, il fratello che alleva api
e il padre di cui vediamo la sagoma in una diapositiva e di cui ascoltiamo
la voce su un nastro registrato: sono tutti tasselli per la costruzione
di una realtà un po sui generis forse, ma umanamente
ricca e articolata.
E la mdp si sposta obliqua tra le vetrine e procede insicura tra le
facce espressive della gente; cè la famiglia italiana numerosa
e rumorosa, la coppia orientale che viene da lontano e non parla affatto
bene la lingua, la commessa sinuosa e molto sveglia che per una volta
non scandalizza né preoccupa, e nemmeno suscita un sentimento
di angoscia: La ragazza fa sorridere e ridere
e ride pure lei che
è una bellezza.
Lucida e amaramente attuale è, inoltre, la riflessione sulla
guerra e sugli ideali che la giustificano- mistificano. Laccusa
del ragazzo che ha dovuto rinunciare alla figura paterna per qualcosa
che non si può toccare né vedere (un ideale), ci porta
dritti dritti nel cuore del problema della responsabilità delle
scelte individuali e collettive.
Non avrebbe fatto meglio a restarsene a casa con la famiglia, il buon
Elias?
E perché non è più tornato?
Prima di svelare lenigma che sostanzia la pellicola e che si rivelerà
molto più banale del previsto (ma non per questo meno indovinato
allinterno di una discussione condotta sul filo del paradosso),
facciamo in tempo ad assistere al ritorno delleroe e allo scontro
generazionale che ne segue.
Seminando qua e là nozioni di cultura e religione ebraica, Burman
stimola linteresse senza mai annoiare e pone domande senza pretendere
risposte che probabilmente non conosce neppure lui.
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