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Iran / Francia, 2001
di Abbas Kiarostami
Nel marzo del 2000, L'IFAD (International Fund for Agricultural Development)
invitò Kiarostami in Uganda a visitare un centro dell'Uweso,
l'organizzazione nata per supportare i bambini orfani che pagano a caro
prezzo i disastri causati dalla guerra civile e soprattutto dalla piaga
dell'Aids. Il regista iraniano fu invitato a documentare il quadro globale
per una successiva diffusione.
Nasce così questo diario di viaggio. Un documentario che vede
Kiarostami alle prese con le incertezze e gli indugi di chi si appresta
a scoprire un mondo che non conosce ma che sa di dover trattare con
rispetto spinto dalla volontà di voler capire ed informare. Sceglie
il supporto digitale di cui accarezza i lampi di libertà soprattutto
nel momento in cui egli stesso si trasforma in soggetto-agente alla
pari dello sciame di bambini che lo contorniano con i loro volti curiosi.
Kiarostami informa e denuncia dunque; filma il dolore come se lo appuntasse
su un taccuino, ben attento a svolgere il suo lavoro con pudore e cercando
di soffermarsi su ciò che lo colpisce, titubante e sorpreso,
come un viaggiatore solitario. ABC Africa si delinea principalmente
in tre fasi documentaristiche: quella situazionale atta ad illustrare
il lavoro di assistenza e accoglienza dell'Uweso che insegna alle donne
la cultura del risparmio descrivendo la divisione in piccoli nuclei
e il funzionamento del rudimentale meccanismo di parsimonia. Con un
eccesso di didascalismo la telecamera digitale penetra nei villaggi
per cogliere l'aspetto folkloristico riunendo nella danza la spontaneità
e la speranza delle donne e dei bambini. Infine cerca e trova dei punti
di intermittenza, degli strappi in cui insinuarsi per evitare di concepire
un piatto lavoro su commissione. La sua curiosità si accende
di uno sdegno circospetto, talmente lieve da sembrare acritico quando,
entrando nel centro d'emergenza per malati di Aids, si sofferma sui
manifesti della Chiesa che invitano i ragazzi alla verginità
come unica arma contro il propagarsi del virus HIV; un'istantanea che
diventa il corollario della precedente testimonianza di un autoctono
che raccontava della propaganda cattolica contro l'uso del profilattico
in un paese demograficamente congestionato e appestato dalla terribile
malattia che, secondo le statistiche, miete il numero più rilevante
di vittime tra i maschi adulti che lasciano spesso come testamento dozzine
di figli. Rischia la facile commozione quando nel suddetto centro, il
suo occhio cattura un piccolo cadavere che sta per essere avvolto nel
cartone ed essere portato via sul retro di una bicicletta. In questa
azione l'impaccio cortese di Kiarostami raggiunge uno dei suoi vertici;
l'altro è costituito da una sequenza di oltre cinque minuti in
cui l'obiettivo si lascia oscurare dalla notte. Oltre cinque minuti
di schermo nero: Kiarostami dialoga con il suo assistente dopo l'abituale
interruzione della corrente elettrica. Le distanze tra lo spettatore
e L'Uganda si annullano nel buio; la sproporzione tra le condizioni
economiche viene visivamente azzerata. E' questo l'istante più
illuminante, paradossalmente. Più degli sguardi della gente,
più dei volontari, più della coppia di austriaci venuta
ad adottare un bambino, più del cadavere avvolto nel cartone.
Nella soppressione della luce ogni distribuzione di fortuna e ricchezza
smarrisce ogni senso e non si ubbidisce più alla gerarchia dello
sguardo che sicuramente svela e denuncia, ma soprattutto distingue:
noi di qua, loro di là; noi spettatori, loro poveri disgraziati.
Il buio cancella questo elemento di disunione, resetta il nostro sguardo
invitandolo a una visione meno superficiale allorché la luce
tornerà ad illuminare la realtà fin qui mostrata. |