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Opere prime a Venezia 56

Spiritualità e tempo

Primo Piano di Chiara Lenzi



^ Jesus’ son, di Alison Maclean

Venezia 56 è stato il festival delle opere prime, il loro numero era veramente notevole. Molte sono state delle felici scoperte: film ben fatti, piacevoli, girati con l’umiltà dell’opera prima. Purtroppo le opere più interessanti non sono state italiane, da queste ultime ci si aspettava qualcosa in più. Vorremo costruire un piccolo viaggio in tre tappe intorno al globo terrestre (che sarà a modo suo anche un viaggio nel tempo) utilizzando come guida tre opere prime, passate in sordina, molto diverse tra loro ma ognuna a modo suo interessante.

La prima tappa vorremmo farla nel grande continente americano patria di tanto cinema d’autore e commerciale, ma sempre d’impeccabile confezione. Il film in questione, A Texas funeral (Settimana della critica), è il lungometraggio d’esordio di William Blake Herron, già pluripremiato per il suo cortometraggio The Healing e già autore di soggetti e sceneggiature, applauditissimo alla proiezione veneziana ha buona probabilità di essere un giorno distribuito anche in Italia.
Con A Texas funeral, ci caliamo nel Texas del mitico 1968, all’interno della famiglia Whit (che prende spunto dalla vera famiglia del regista), nel giorno del funerale del capofamiglia. La situazione è vista con l’occhio del piccolo introverso L’il Sparta che, casualmente, sorprende la nonna tagliare e succhiare l’orecchio del defunto e da quel momento non parlerà più. Sì, perché la famiglia Whit non è una famiglia come le altre, prima di tutto gli uomini hanno un orecchio afrodisiaco e tutte le donne di casa impazziscono per le orecchie al cui richiamo erotico non riescono a resistere (questo elemento narrativo è portato un po’ all’eccesso nella parte finale del film). Seconda cosa, possiedono da generazioni e generazioni, un cammello. Nel corso del nostro viaggio con la famiglia Whit scopriremo rivalità, fantasmi del passato, scheletri nell’armadio, leggende familiari su imprese eroiche in realtà mai esistite. Il racconto procede con flash-back e apparizioni di fantasmi, che naturalmente appaiono solo al piccolo L’il che dialogando col nonno defunto riuscirà a crescere e a superare il trauma.
A Texas Funeral è anche un film che esprime il sentimento del Sud, come la letteratura di Faulkner o di Welty, col tema del rito di passaggio dall’infanzia all’età adulta, la magia che si trova nella realtà, lo sguardo bambino, la morte e l’esequie, il senso epico della famiglia… Moderno melodramma familiare, abbiamo un’immagine nuova, inusitata, ma nello stesso tempo vera del Texas, fuori da stereotipi, metafora del mondo stesso. I luoghi sono resi simbolici attraverso l’uso di un technicolor abbagliante. Nel film c’è anche molto dell’immaginario biblico: la prateria, il deserto, il cammello… E il sentimento puritano manda al manicomio la più sfrontata dei componenti della famiglia: Miranda. È un film assolutamente americano perché lavora sulla mitologia delle origini del mito americano. La storia dell’America che si accorge che il mondo sta cambiando s’intreccia con le disillusioni e la verità familiare.

Ma non c’è un altro film presentato nella stessa sezione che affronta proprio questo intreccio storia personale e storia della propria nazione? Siamo in un altro clima storico, quello del 1947, nel momento della Partizione e dell’indipendenza Indiana. Il regista è un professore di economia, indiano, che attraverso il film cerca di superare il ricordo e i traumi che sono rimasti indelebili nella memoria di chi ha vissuto quel drammatico momento. Il film in questione è Karvaan che attraverso la storia di due famiglie ripercorre la Storia del loro paese.

Con un salto spazio-temporale approdiamo in America in pieni anni ’70. Il film, presentato in concorso, è Jesus’ son di Alison Maclean. Precisiamo subito che il titolo non ha nessun richiamo religioso, ma è il verso di una canzone di Lou Reed, "Heroin".
E sentirsi figli di Dio è l’effetto che dà la droga. Il punto di vista adottato è totalmente quello del protagonista (che ha la faccetta del bello, simpatico e bravo Billy Crudup) che non è certo un eroe del cinema classico, anzi è un vero e proprio “antieroe”. È soprannominato Fuckhead (cazzone) dagli amici. Come un vero “cazzone” combina continuamente guai, involontariamente naturalmente, ed è sfigatissimo.
FH ci racconta cinque anni della sua sconclusionata vita on the road: gli espedienti per tirare avanti, gli incontri con personaggi bizzarri, l’amore per Michelle, gli orrori della droga… Il racconto, in prima persona, rispecchia il personaggio: salti temporali avanti e indietro, ritorni più volte su un episodio per raccontarlo meglio, ironia, bonarietà (FH non è mai cattivo con nessuno, rievoca ognuno con bonaria partecipazione), esagerazioni, diverso colore emotivo (dal grottesco al drammatico, così com’è la vita). Anche i momenti più tragici sono sempre narrati con ironia e humour. Non dimenticheremo facilmente la tragicomica scena in cui Michelle si alza da letto raggiunge FH in cucina che sta facendo colazione davanti alla TV (dove trasmettono un cartone animato) e comincia a bucarsi chiedendo al ragazzo di tirare il laccio intorno al suo braccio e lui non osa guardarla, continuando a fare colazione come se fosse la cosa più normale di questo mondo.
Il racconto è ritmato dalla splendida musica anni ’70. Il filo narrativo è l’amore del “cazzone” per Michelle, simpatica sensuale ragazza rimorchiata ad una festa. Lui l’ama di un amore inarrestabile e profondo che non lo fa scappare neanche quando lei lo trascinerà in una storia distruttiva di passione e droga. Toccato il fondo, è proprio la sua innata “compassione” che porta Fuckhead a uscire dal tunnel e a decidere di dare una svolta alla sua vita: aiutare gli altri è la via d’uscita.
Quindi Jesus’ son è anche la storia di una “salvezza”, narrata con estrema naturalezza senza che mai il racconto si appesantisca di risvolti moralistici o edificanti. I cambiamenti sono condotti impercettibilmente e segnati dagli incontri a volte veramente surreali (e per questo comici), come con Dennis Hopper in una lavanderia automatica il cui cuore si accende come un ex-voto o l’infermiere di turno al pronto soccorso continuamente impasticcato. Jesus’ son rifugge gli stilemi sugli anni ’70 e ci dà uno dei migliori film in concorso.

La terza ed ultima tappa del nostro piccolo viaggio, Sennen-Tabito di Jinsei Tsuji (settimana della critica), ci fa approdare sulle sponde di una meravigliosa spiaggia giapponese: unica abitazione, la casetta dove vivono un’anziana signora con la giovanissima nipote addetta alla sorveglianza della spiaggia e che comunica col resto del mondo mandando messaggi in morse alle navi di passaggio. Qui decide di tornare a morire un giovane uomo che viveva in questi luoghi da ragazzo e che sa di avere ancora un mese di vita. Scoprirà di avere una figlia, (la ragazzina della spiaggia) e si riconcilierà col tormentato passato. La calma della vita delle due donne è ancora sconvolta da un altro inaspettato arrivo: quello di un naufrago (che rimane tagliato fuori dal resto del mondo perché il suo cellulare è rotto).
Siamo in epoca contemporanea, ma la dimensione temporale quotidiana non ha importanza in quel luogo che ha qualcosa di magico. Qui tutto sembra trascendere dalla contingenza e lo stesso tempo sembra acquisire una nuova dimensione. Esso non è solo lo scorrere dei minuti, delle ore, dei giorni: e poi lo si può veramente contare e oggettivare? Per un uomo che sa di avere ancora trenta giorni da vivere che significato hanno quei pochi (ma per lui lunghissimi) giorni? E cos’è la morte se non sospensione del tempo? Su quella spiaggia si incontrano il passato, il presente, il futuro, la morte (rappresentata dalla malattia dell’uomo e il “male di vivere” del naufrago) e la vita (i due giovani, pronti a vivere insieme una nuova avventura): infatti il tempo non è mai fine, la morte è sempre anche inizio. Esso è. Nulla finisce definitivamente, secondo gli orientali.
Sennen-tabito
vuol dire Viaggiatore del Millennio e secondo la cultura giapponese è proprio l’anima che viaggia nel tempo. Dopo la morte essa continuerà a viaggiare per i mari, le cui onde si infrangono senza posa sulle coste terrestri, in attesa di reincarnarsi. I personaggi sono spesso ripresi in campi ampi o amplissimi o dall’alto, immersi totalmente nella natura. Questo dà un senso di appartenenza al mondo, di piccolezza dell’essere umano di fronte al creato: la natura, gli agenti atmosferici sono co-protagonisti del film. I corpi perdono la loro fisicità e carnalità: sono solo l’involucro dell’anima che ospitano al loro interno. Il film è poesia e preghiera insieme. Preghiera alla natura resa ancora più bella da una bellissima fotografia. Lo sguardo dei protagonisti si perde verso l’orizzonte, oltre la vita, sull’infinità del mare. I dialoghi sono centellinati (ma il film non è mai noioso, o “pesante”): ha la leggerezza di un sonetto, la bellezza di una lirica, la cantabilità di un poema sottolineata da una dolcissima canzone d’amore.
Dopo la corsa consumistica il cinema giapponese contemporaneo si sofferma sulla morte, sembra accorgersi che tutto ha fine, anche il corpo, e si interroga così sull’esistenza.