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Cinema del presente a Venezia 56

The dark side of the screen

Primo Piano di Stefano Coccia



^ Bleeder, di Nicolas Vinding Refn

Per coerenza con un titolo così impegnativo dovremmo quantomeno dedicarci all’esame di pellicole dallo spiccato sapore “noir”. Ma non è questo il lato oscuro del cinema, cui del tutto pretestuosamente abbiamo fatto riferimento.
Non le fascinose trame del buio sulla pellicola, ma il silenzio forzato del proiettore, la sala vuota, l’appuntamento rinviato. Lo spettacolo che non si farà, in altre parole.
Tali sibilline parole sono un modo come un altro per segnalare la presenza di film che, pur giovandosi di una vetrina così prestigiosa come il Festival di Venezia, difficilmente troveranno spazio nelle sale. Non l’oscurità, potremmo dire, ma più realisticamente l’oscuramento come destino di pellicole a volte difficili, prive di un forte richiamo commerciale. Spesso questa è la sorte di molte opere confinate nelle sezioni marginali di un festival.
Una di queste sezioni, "Cinema del presente", è l’oggetto della nostra indagine. Cinema del presente... senza futuro? Non è certamente il caso di Come te nessuno mai e Il dolce rumore della vita, le opere italiane inserite in tale sezione, per le quali vale ovviamente un discorso diverso. Ma presumiamo che sarà difficile vedere programmati al di fuori di qualche rassegna Bleeder di Nicolas Winding Refn, Civilisees di Randa Chalal Sabbag e Abendland di Fred Kelemen , solo per citare i tre film sui quali concentreremo la nostra attenzione.
Un rapido volo sul “presente” del cinema? A dire il vero, la pretestuosità implicita nel selezionare un gruppo eterogeneo di pellicole e porle sotto un comune denominatore è un’operazione che può suscitare ironie. A partire dal nome scelto per definire una sezione. Ricordiamo, nelle passate edizioni, una "Officina veneziana" in cui non si forgiavano metalli e una Corsia di sorpasso mai presidiata dall’autovelox. Per stare al gioco potremmo dire che i film di cui andremo a parlare costituiscono altrettanti “presenti”, una gamma in qualche modo rappresentativa delle possibili direzioni in cui s’incammina il cinema europeo. L’impressione di aver individuato un osservatorio privilegiato è avvalorata dalla più o meno giovane età degli autori presi in esame.

Perché allora non cominciare proprio dal giovanissimo Nicolas Vinding Refn, classe 1970, il cui splendido Bleeder è stato forse una delle sorprese più piacevoli della rassegna veneziana? Incuriosisce innanzitutto la vicenda di un regista danese non ancora trentenne che ha vissuto per molto tempo a New York, si è fatto cacciare in poco tempo dall’American Academy of Dramatic Arts, e si ritrova oggi con Bleeder già al secondo capitolo di una trilogia iniziata con Pusher, opera prima accompagnata da numerosi riconoscimenti a livello internazionale. Incuriosisce ancora di più il fatto di trovarsi di fronte ad un danese per così dire non “dogmatico”, ovvero lontano mille miglia dalle scelte estetiche condivise da connazionali famosi come Lars Von Trier e Thomas Vinterberg. Refn gioca al contrario con il cinema e la sua storia in assoluta libertà, mostrando un apprezzabile gusto per l’autoironia. I protagonisti di Bleeder viaggiano nelle rispettive solitudini e incomprensioni alla ricerca di un punto di fuga fuori dalla realtà. Tutto ruota attorno ad una videoteca, polo magnetico che attrae le fantasie sovreccitate di uno squinternato quartetto maschile. Il proprietario della videoteca stessa, paradossalmente il più distaccato della compagnia, organizza proiezioni private di cui sono ospiti fissi tre amici, Lenny che lo aiuta in negozio, il rude Leo in compagnia di un tipo ancora più violento, il fratello di Louise, la sua donna. La loro morbosa adesione al mondo fittizio che gli si apre davanti spalanca le porte a differenti gradi di alienazione. Ne fanno le spese Leo e il fratello di Louise, che si lasciano trascinare in una spirale di assurda violenza, generata dai maltrattamenti inflitti dall’insoddisfatto e immaturo Leo alla compagna, della quale non è riuscito ad accettare la gravidanza, e dall’ indole aggressiva e vendicativa del fratello di lei. Accanto a questa storia estrema si consuma l’esistenza silenziosa ed emotivamente precaria di Lenny, ugualmente risucchiato in un immaginario cinematografico fatto di azione, tipi duri, sparatorie, pellicole rare; ma Lenny è portato al contrario dei compagni ad assorbire tutto e a metabolizzarlo nella propria timidezza e introversione, ostacolo difficile da superare affinché si realizzi l’amore appena sbocciato per Lea, altrettanto infelice sognatrice.
Bleeder racconta tutto questo sovrapponendo delicatezza e fragilità di carattere ad azioni e pensieri di sconvolgente crudeltà e violenza., che culminano in una vendetta grandguignolesca e feroce. In un caso o nell’altro, scene di vita ai margini, sopra le righe, accompagnate da scosse di rock scandinavo e sigillate da efficaci dissolvenze in rosso, rosso/sangue, ma anche rosso/amore.
Un’ironia di fondo dà respiro alla narrazione valendosi di suggestioni metacinematografiche per collocare i personaggi in un clima artefatto, vicino al mondo dell’immaginario dal quale si sentono attratti.
Folgorante ed esilarante l’inizio: Lenny si produce di fronte ad un cliente in un interminabile elenco dei video disponibili nel negozio, relegando in secondo piano molti classici della storia del cinema. Si salvano Peckinpah e Fueller, che con altri “duri” e con outsider come Lustig, Bava, Corbucci, Jackie Chan, vengono a comporre un parodico pantheon di “grandi autori”, indirizzando in maniera univoca verso il genere e verso l’underground.
L’autoironia del regista si esprime in molteplici modi: le scene crude delle punizioni letali e raccapriccianti che si infliggono l’un l’altro Leo e il fratello di Louise vengono riprese in scenari che ricordano rispettivamente il set di uno snuff-movie e il clima di un poliziesco anni ‘70. I due finiscono col subire la brutalità che non hanno saputo lasciare sul grande schermo. Lenny, il personaggio più simpatico, prigioniero del suo amore per il cinema, sembra salvarsi sottraendosi al gioco perverso e trovando la forza per corteggiare Lea... Ma il suo agire si fa convinto solo quando un black out fa saltare le luci del locale dove i due si stanno parlando: le luci azzurrognole del generatore di riserva hanno creato magicamente l’ambiente ideale per una storia romantica! Refn sembra comporre un goliardico omaggio allo spirito cinefilo, amplificandone le paranoie e giocando con i destini dei suoi personaggi. Refn a tratti ricorda altri giovani registi europei come Alejandro Amenabar, autore di Thesis e Apri gli occhi. Specialmente in Thesis si intravede una analoga spinta a piegare la struttura del genere e l’ammiccamento cinefilo alle angosce e alle insicurezze di personaggi alle prese con un difficile ingresso nel mondo “adulto”.

Altre esperienze rivela il secondo film che ha colpito la nostra attenzione. Civilisees di Randa Chahal Sabbag. Un altro, intenso, legame con la martoriata terra del Libano, dopo quello esibito da Ziad Daouri nell’eccellente West Beyrouth, esule anch’egli ma in America. Civilisees è innanzitutto un ulteriore esempio di come la Francia continui ad essere l’epicentro di un cinema apolide, la patria d’adozione di esuli, di viaggiatori, di uomini in fuga. La Francia che ha ospitato Ruiz e Iosseliani ospita anche Randa Chahal Sabbag, che a sua volta in un ritratto corale, frammentario, a tratti surreale della vita a Beirut durante la guerra civile, ha voluto menzionare altri ospiti. Ovvero i domestici, gli immigrati di altri paesi africani e asiatici rimasti anche loro prigionieri della città e possibili bersagli della follia omicida dei cecchini e delle milizie; e accanto a loro è di rilievo l’altra presenza esterna di un giovane volontario di medici senza frontiere, spaesato e quasi sempre impotente di fronte agli avvenimenti.
Civilisees non sempre riesce ad eguagliare la densità emotiva e la naturalezza nel modulare i toni del racconto di West Beyrouht. Eppure all’interno dei due film si finisce per incrociare storie simili, quasi inevitabili e scontate, ma raccontate con sentimento , come il legame d’amore tra un giovane musulmano e una giovane cristiana: in Civilisees lui è un miliziano e lei è una domestica, e la storia trova la sua drammatica conclusione sull’orlo di un confine, nell’assurdo della terra di nessuno.

Un differente senso di vuoto, una ancora più marcata frattura con il reale e le sue miserie, è quanto ci regala il film cui vogliamo accennare in chiusura, Abendland di Fred Kelemen.
Il tedesco Fred Kelemen si conserva fedele ad un’idea di cinema difficile da portare avanti, quasi improponibile per le sale, al limite della claustrofobia e quaresimale. Abendland è una inquietante tappa di tale ricerca.
Quasi due ore di deambulazioni notturne di personaggi sfigurati dalla solitudine, dalla depressione e dall’angoscia, malconci figuranti in un ambiente urbano che non concede speranze, una Berlino spettrale ripresa in bianco e nero nell’attesa di un’alba che sembra portare molto dolore, ma anche una terribile ma necessaria presa di coscienza.
Il tutto espresso in interminabili piano-sequenza intervallati da inserti video che focalizzano frammenti di azioni meccaniche e inutili, particolari di situazioni tetre, orribili o semplicemente inerti. C’è in Kelemen evidentemente la ricerca di un rigore formale che definisca in maniera netta una visione della realtà marcatamente pessimista, turbata, nichilista. La carica etica, il prolungarsi nel tempo di scene votate all’immobilità o alla ripetitività, il lavoro sull’immagine, fanno pensare all’opera di un altro autore appartato, Sokurov. Ma a Kelemen rimane estranea, ad esempio, la grazia e la sensibilità pittorica espressa da Sokurov in un capolavoro come Madre e Figlio.
Al contrario, l’ostinato rigore stilistico esibito da Kelemen sembra a tratti portare ad una meccanica ed eccessivamente fiduciosa applicazione di un breviario essenziale e limitato di scelte formali, con il rischio di offuscare il potenziale drammatico di un film come Abendland, potenziale inesorabilmente disperso nella durata e nella lenta esplorazione dello spazio da parte della m. d. p.
Più che al “cinema del presente”, l’eccessivo, estenuante, ma in parte gratificante cinema di Fred Kelemen aspira forse a porsi come molecola di un cinema fuori dal tempo.