omaggio a Arthur Miller
L’ultimo viaggio del commesso
di Giulio Frafuso

 
 
Arthur Miller è morto. La cultura letteraria mondiale adesso è più povera. Quella americana, in particolare, ha perso colui che probabilmente è stato il maggior drammaturgo della sua storia teatrale, un genio avvicinabile soltanto dal lirismo sincopato di Eugene O’Neill. Eppure, l’America non ha sempre amato e coccolato il suo talento, tutt’altro.
Già, perché più di tutti gli altri grandi commediografi, da Tennessee Williams a Thornton Wilder, Miller è stato capace di raccontare con lucida malinconia il lato oscuro dell’american dream: il suo personaggio più famigerato, il Willy Loman di “Morte di un commesso viaggiatore”, è da subito diventato l’archetipo della fascia più popolare della middle-class americana, quella fascia di popolazione smarrita e confusa nell’alienazione urbana delle grandi metropoli, messa in ginocchio dalla Grande Depressione, devastata dalle due guerre e dal problema dei reduci, fagocitata dalla macchina insensibile del capitalismo. Tutto questo è stato inserito da Miller nei suoi drammi migliori, attraverso una prosa che pur nell’elegia dei suoi momenti più alti non ha mai risparmiato allo spettatore l’amarezza ed il pessimismo di una visione del mondo troppo disincantata per trovare sempre il plauso dell’opinione pubblica. L’esordio sui palcoscenici di Broadway è avvenuto nel 1944 con “L’uomo che ebbe tutte le fortune”, grande successo di critica ma scarso di pubblico; la prima, grande consacrazione è arrivata nel ’47 con “Erano tutti miei figli”, bissata due anni dopo da “Morte di un commesso viaggiatore”, replicato nei teatri newyorkesi per 742 volte ed insignito del Pulitzer. Nel 1955 Miller scrisse poi “Uno sguardo dal ponte”, altro capolavoro ammirato dall’intero establishment dello spettacolo americano, tanto che il commediografo ricevette una telefonata di complimenti da un’attrice allora piuttosto in voga: il suo nome era Marilyn Monroe. Nel suo accostarsi all’industria hollywoodiana, ed in particolare allo star system, Arthur Miller verrà ricordato principalmente per il matrimonio con la Monroe: durato quattro anni, quest’ultimo ha anche fruttato una collaborazione artistica nello splendido e funereo Gli spostati, diretto da John Huston, scritto dal drammaturgo - prima sua sceneggiatura scritta espressamente per il cinema - e diventato ormai un cult movie per aver rappresentato l’ultima interpretazione sia della divina Norma Jean che di Clark Gable. La leggenda narra che Miller ebbe l’idea per il soggetto del film proprio a Reno - dove la storia è ambientata - mentre aspettava l’annullamento legale del suo matrimonio per poter immediatamente dopo sposare la Monroe: purtroppo la fine delle riprese segnò anche la fine del rapporto tra Miller e la Monroe. Oltre a questo script, lo scrittore si è poi cimentato nella riduzione cinematografica di “Morte di un commesso viaggiatore” interpretata nel 1951 da uno straordinario Fredric March - ma vogliamo ricordarne anche un’altra datata 1985, con un immenso Dustin Hoffman e diretta da Volker Schlöndorff - e ultimamente per la trasposizione de “Il crogiolo”, una delle sue commedie più intense e politiche, che si è tramutata nel 1996 in La seduzione del male di Nicholas Hytner, interpretato da Daniel Day-Lewis, Winona Ryder e Joan Allen. I riferimenti neppure troppo velati al periodo del maccartismo esasperato, regime censorio che l’autore ha da sempre denunciato pagandone le conseguenze, hanno tutto il sapore di una denuncia idealistica ed appassionata, condotta con una fermezza morale ed una spinta ideologica ormai, purtroppo, troppo lontana dai nostri tempi. Il film ha diviso la critica e lasciato insensibile il pubblico, ma ha fruttato a Miller la nomination all’Oscar per l’adattamento.
Questi i pochi ma significativi accostamenti di Artur Miller con la “settima arte”; vogliamo chiudere, però, con una semplice statistica: dalle sue opere teatrali sono stati trasposti sul grande schermo o per la TV ben 52 lavori, conferma innegabile di come la sua arte abbia influenzato l’industria dello spettacolo americana degli ultimi cinquant’anni con una regolarità ed una forza propulsiva che testimoniano, in fondo, come Miller abbia saputo raccontare con sincerità e lucido sguardo la sua America.