|
||||||||||||||||||
La cesura e l'evento Il confine che separa uno stato della vita da quello successivo: la condizione del transito, in cui la situazione muta e si viene inseriti in un tortuoso processo di trasformazione: questo slittamento situazionale può essere preso come nodo cruciale per accostarsi ai primi due film di Paolo Sorrentino. È la radiografia dell'"Evento", della rottura su cui lo sviluppo del racconto si sofferma, ad interessare l'autore napoletano. L'uomo in più racconta di questa cesura, del solco abissale che distingue il successo personale dalla disfatta seguente, in cui si rischia inevitabilmente di precipitare all'interno di determinati ambienti. Il regista napoletano ha scelto due ambiti "ideali" per disegnare le parabole esistenziali dei "gemelli" Pisapia: da una parte il calcio ed il suo business, che stritola chi lo pratica e lascia poi senza futuro ("Noi non sappiamo fare un cazzo!" ricorda il compagno di squadra ad Antonio Pisapia); dall'altra il business della musica, dove se ti rovini l'immagine sei poi costretto a ripartire da zero, da tristi piazze di provincia in cui è difficile trovare fiducia nel futuro. Dopo essere sprofondati nella disgrazia tutto è diverso. Mentre la parabola esistenziale di Antonio Pisapia volge al termine - sulla falsariga della storia del calciatore della Roma Agostino Di Bartolomei - inizia a tendersi un filo invisibile, un collegamento metafisico fornito dalla scrittura e dalla messa in scena dell'autore, volto ad avvicinare i due protagonisti; ed ecco allora che il proprio alter-ego è lì: il gesto folle di Toni - l'uccisione del presidente ingrato, carnefice indiretto di Antonio Pisapia - suggella quindi un rapporto ideale, un sentimento invisibile fatto di sguardi occasionali, di sensazioni che non hanno riscontri tangibili: in poche parole, materia da cinema. In questa prospettiva è lo sguardo a porsi come elemento cardine della narrazione, momento di un incontro di emozioni rivelatrici capaci di avvicinare persone sconosciute tra loro. Il gusto dell'autore è facilmente individuabile, la poetica chiara, le marche dell'enunciazione evidenti. In un mondo nuovo, modificato da una splendida presenza, precipita anche Titta Di Girolamo, lo sconnesso ed affascinante protagonista de Le conseguenze dell'amore. A livello comunicativo Paolo Sorrentino dimostra subito una raggiunta maturità nel costruire i meccanismi narrativi del film. Meno sicuro delle proprie capacità, soprattutto nella scrittura, Sorrentino si affidava nella sua opera prima a sistemi di segni volti a palesare da subito la condizione dei protagonisti, insistendo nell'aggravarne la sorte e soffermandosi su elementi che riuscissero a tratteggiarne le suddette disfatte esistenziali. L'uomo in più soffriva a nostro avviso di qualche eccessivo didascalismo e di uno svolgimento narrativo un po' tirato per le lunghe. Nella stasi in cui è avvolta la vicenda de Le conseguenze dell'amore, Sorrentino decide invece di cambiare strada e provare a proporre formule narrative alternative. Costretto a strutturare un gioco da thriller per non perdere il ritmo della visione e tenere vivo l'interesse nella storia, il regista/autore si sbarazza di alcuni presupposti narrativi del lungometraggio precedente sostituendoli con una più rigorosa disposizione dei dati, creando cioè un interessante percorso di detection: il silenzio e la scontrosità ingiustificati che il protagonista Titta Di Girolamo ostenta soprattutto nei confronti della graziosa barista, che tenta inutilmente di ottenere attenzione; le attenzioni rivoltegli dalla cameriera che spera in un suo segno di compiacenza; un televisore finto, al cui interno è nascosto un volume/schedario, capace forse di contenere la soluzione al mistero dispiegatosi sotto i nostri occhi - il mistero di un uomo solo, recluso in un hotel svizzero da cui osserva il mondo, lontano da quell'umanità verso cui sembra provare più compassione che interesse. Il presupposto narrativo essenziale del film sta però nel fatto che questa vita da carcerato, al di là delle motivazioni narrative con cui verrà in seguito giustificata, è continuamente disturbata dall'esterno, da persone che vorrebbero scoprire il segreto del protagonista. Titta intriga chi entra in contatto con lui, scatena un primordiale bisogno di conoscere ciò che è precluso, di sfidare la difficoltà comunicativa posta da un comportamento marcatamente antisociale: per questo complesso gioco di sguardi misteriosi la giovane Sofia resta sedotta da questa figura enigmatica che le nega anche le minime, comuni misure d'educazione. L'assunto ambientale e situazionale da cui Sorrentino parte rischia però di restare spunto isolato, specie se comparato, nel suo riuscire a dare coordinate al personaggio e suscitare interesse verso l'inazione che si svolge nell'albergo, al meccanico e trascinato risvolto mafioso della seconda parte del film. Pur riuscendo a ritrarre con maestria una "Cosa Nostra" ordinaria (su tutto lo splendido e surreale luogo di ritrovo: il convegno sull'ipertrofia della prostata), e a servirsi ancora una volta di una sapiente asciuttezza narrativa per descriverne i micro-funzionamenti, la sensazione che lo scioglimento del mistero personale di Titta sia leggermente appiccicato pesa poi, in definitiva, sul giudizio complessivo da dare al film. In ogni caso, l'aspetto cruciale del protagonista è il suo totale ed inappellabile distacco da una realtà infame che lo ha rinchiuso in quell'albergo, privato del contatto con i figli, di un lavoro normale e di possibili relazioni sentimentali. Come risulta chiaro sin dalle prime immagini (dopo il piano iniziale su cui scorrono i titoli di testa, è proprio un primo gioco di seduzione, fatto di sguardi intensi tra Olivia Magnani e l'uomo in papillon Rolando Ravello, a far partire la storia e ad offrire le prime coordinate emotive!), il corto circuito emozionale motore del film verrà alimentato proprio da quest'inadeguatezza relazionale: Titta non è più in grado di dosare le reazioni, essere in accordo con le circostanze, coerente dietro la sua maschera ("Cosa si dice in questi casi? Sono un commercialista, io!": così si giustifica per il suo straordinario regalo); nonostante l'imperturbabile passività della sua espressione, un turbine di emozioni prende vita e scatena le proprie insospettabili conseguenze. Nel silenzio della solitudine anche l'arrivo del fratello, evento cardine da cui prenderà vita "l'azione" vera e propria del film, è momento in cui viene sottolineata la sua drammatica dissociazione, in cui si palesa ulteriormente questa semi-realtà in cui è precipitato il protagonista, in una sequenza poi fondamentale per il senso ultimo della pellicola: richiamandogli alla mente il nome del suo vecchio amico Dino Giuffrè, il fratello di Titta rapisce per la prima e forse unica volta l'attenzione del protagonista (Sorrentino non si risparmia audaci sottolineature registiche e musicali), che gli si rivolge rapito, timoroso che a quel suo amico che non vede da vent'anni possa essere capitato qualcosa di brutto. Quest'elegia dell'amicizia sembra l'ossessione riposta dell'autore, il nucleo profondo a cui rimandano le sue due pellicole. Ne L'uomo in più, infatti, i fili trasparenti di rapporti idealizzati a livello psicologico rivelavano il carattere umano di Toni Pisapia, deciso a rinunciare alla propria non-vita per ridare dignità, o almeno fare vendetta, per il sacrificio umano del suo alter-ego mai conosciuto. L'analogia tra i due film più evidente è costituita proprio da questa reazione spropositata, forse sbagliata, con cui Toni Pisapia e Titta di Girolamo si ribellano alla propria tragica parabola esistenziale. C'è del sublime nichilismo di fondo in questa dissociazione, un'accorata e sentita fratellanza con i poveri della terra (che hanno "inventato la Sfortuna", come dice argutamente Titta al fratello, per salvarsi la coscienza e l'orgoglio), questo voler offrire alla loro esistenza un ultimo motivo di riscatto. Solo così è giustificabile il gesto grandioso, emblematico, che Titta compie prima della morte, analogamente al suo simile Toni Pisapia: donare alla coppia di losers la valigia che ha deciso di non restituire, una sorta di ricompensa a persone che reputa più "sfortunate" di lui. È necessario allora fare un passo indietro e riconsiderare l'umanità di Titta, un'umanità offuscata da comportamenti ambigui, come quando riesce a recuperare la valigia, permettendo così a se stesso di rivestire un ruolo da protagonista, rinfrancato nelle proprie capacità. Un impulso di ribellione e violenza che lo spinge, anche solo per un momento, a valutare in seguito l'ipotesi di impossessarsi delle pistola che è accanto a lui ed uccidere i due sicari che lo stanno scortando in automobile verso la sequenza conclusiva. In questo caso, però, non sarà abbastanza lesto. L'apparenza dunque inganna: se da una parte la scontrosità di Titta sa trasformarsi in qualcosa d'impensabile, un volo pindarico della solidarietà capace di svelarne il lato irriducibilmente umano, all'opposto c'è un Titta che non si limita a semplici dimostrazioni di filantropia. Come Toni Pisapia, anche questo secondo personaggio interpretato dallo splendido Servillo regala umanità solo perché caduto in disgrazia; il suo accostarsi agli altri è dunque conseguenza dello sbando che la propria vita sta soffrendo: se Sofia e l'alter ego Antonio Pisapia non avessero incrociato la strada del protagonista non avremmo mai avuto lo straordinario gesto che conclude le vite dei due. La grettezza di Toni, buono solo a tirare coca e a sperare in una magica rentrèe nel mondo musicale, e la poca intelligenza di Titta, medio commercialista incapace di farsi scrupoli, non avrebbero conosciuto un ultimo, magico riscatto. Questo gesto regala tuttavia ai due film un malcelato senso di fiducia nell'uomo; una fiducia certo amara, viziata dal difetto indelebile di un sano e radicato individualismo. Una generosità egoistica, si potrebbe dire, che sottolinea perentoriamente il messaggio ambiguo, moderno, perfettamente riuscito, che le opere di Paolo Sorrentino puntano a trasmettere allo spettatore. Cinema in movimento Seguendo le dichiarazioni dello stesso autore, la regia particolarmente virtuosa de Le conseguenze dell'amore sarebbe stata un scelta forzata, imposta dall'estrema stasi in cui si trova costretto Titta di Girolamo. Più che parlare di virtuosismo, si può tranquillamente riconoscere nella "mise en scène" del film un'enciclopedia dei codici filmici propri della macchina da presa: carrelli in avanti di tutti i tipi, dolly poderosi che precipitano dal soffitto o che si impennano in aria, vaste panoramiche che informano abbondantemente sulla scena e recuperano personaggi lasciati in precedenza, soggettive vere o false, camera-car, riempimento dello schermo in nero su un oggetto ed uscita seguente dal nero, profondità di campo ostentate, ecc... Un abbecedario completo delle possibilità di regia offerte dal mezzo cinematografico. A ben guardare però, le stesse dichiarazioni di Sorrentino traggono in inganno se si confronta lo stile di quest'ultimo film con il precedente, costellato in egual modo di trovate interessanti, straordinariamente ricco come il successivo e volutamente insistente nel proporre mobilità di macchina. Uno stile preciso quindi, costruito su scelte deliberate, volto ad ottenere un linguaggio visivo ridondante ed anche un po' glamour, attento cioè alle tendenze dell'immagine contemporanea (sono evidenti, in entrambi i film, contaminazioni con stili alternativi quali quelli del videoclip o dello spot). A Sorrentino piace stupire, non c'è dubbio: anche il montaggio in questo riveste un ruolo centrale, agevolando l'iperbolica successione delle immagini e costruendo incastri visuali finemente ricercati. Ritmi serrati come ne L'uomo in più o tempi raggelati, dilatati come ne Le conseguenze dell'amore, regolati da audaci intarsi tra audio e video, testimoniano il lavoro scrupoloso che le produzioni dei due film hanno svolto nel costruire l'aspetto formale dei film. Nel contesto di questa notevole ricerca, la dimensione fonica è sicuramente l'aspetto più curato, a cui è stata data un'attenzione speciale, come durante la sequenza del duplice omicidio compiuto dal killer, dove una musica che sembra extra-diegetica, supposta sonorità mentale dell'omicida che ha scoperto altre persone nell'appartamento, si rivela essere la musica che ascolta un ragazzo paraplegico nella stanza accanto; o come nella sequenza iniziale, nella hall dell'albergo, con la carrozza funebre che passa fuori dalla vetrata e l'alternata modulazione del suono prodotto dalle ruote a sottolineare il divario ambientale, accentuato nelle inquadrature dall'esterno, ridotto a sordo rumore ovattato nei piani dall'interno. Sorrentino lavora con attenzione anche alla scelta delle musiche, privilegiando motivi estremamente moderni che accompagnano la prima fase della vicenda, prima di lasciare il posto agli struggenti temi del film, inseriti con modalità particolarmente spettacolari, ad incidere sull'evoluzione sentimentale e comportamentale del protagonista. La pienezza dello stile dell'autore ricorda in questo certo cinema americano, nella lezione che dai maestri della New Hollywood è giunta sino ai giorni nostri, in cui il movimento filmico della macchina da presa, quello nel profilmico dell'attore e l'accompagnamento musicale offerto dalla colonna sonora lavorano di comune accordo, si fondono allo scopo di ottenere una fluidità emotiva che coinvolga lo spettatore, costruendolo come soggetto privilegiato dell'intera operazione filmica. Cinema dunque spettacolare, che utilizza tutti gli strumenti linguistici a disposizione, che cerca di trasformarsi in una vera e propria sinfonia; cinema che trasporta lo spettatore nel mondo finzionale della diegesi attraverso un coinvolgimento a 360 gradi; una partecipazione che denuda, che priva delle difese proprie del soggetto spettatore, che eleva il personaggio e la sua vicenda a parabola mitica, esemplare. Dalla struttura binaria dell'intreccio all'americana, modello d'ispirazione abbastanza evidente, ne Le conseguenze dell'amore Sorrentino mutua in particolare il principio dialettico, decidendo di mostrarci la scena dell'incidente di Sofia in parallelo con il furto della valigia subito da Titta, per accostare i due personaggi e tenerci sulle spine, e deduce da questa struttura duplice il modello di messa in scena per arricchire stilisticamente il prevedibile ed alquanto monocorde sviluppo ultimo della vicenda di Titta Di Girolamo, personalizzandone le modalità essenziali. Prima cela il formidabile recupero della valigia operato da Titta, mostrandocelo pezzo per pezzo parallelamente alla condanna della Mafia verso il pover'uomo; il montaggio alternato, proprio nel momento del trapasso, del sacrificio di Titta, si sposta poi dal piano del presente a quello futuro/contemporaneo per raggiungere la neve del Trentino e lo sguardo complice di Dino Giuffrè, lasciando spazio al termine della pellicola. Scelta efficace, che riempie quest'ultima porzione di film e svela l'anelito artistico di Paolo Sorrentino: impadronirsi di alcuni presupposti del cinema statunitense, nell'uso di strutture binarie narrative e di messa in scena, o per mezzo di piccole anticipazioni (come la gru che Titta osserva fuori dalla finestra e ci preannuncia il tragico finale già a metà film), o ancora attraverso piccoli giochi autocitazionisti, e in questo voler tentare di essere un autore, al fine di costruire un'opera tout court che ragioni autonomamente spostandosi dal generale al particolare e che si strutturi, per dirla in parole "povere", in maniera epica. Si veda in proposito il titolo stesso del suo primo lungometraggio, quell'uomo in più che è sia lo schema di Antonio Pisapia, sia il ruolo che lo stesso Pisapia ha giocato, ovviamente, per Toni: il sostituto del fratello, l'idealizzazione di qualcuno in cui specchiarsi, l'amico mai conosciuto cui restituire vendetta. Un gusto per la costruzione grandiosa che riempie di meriti le intenzioni autoriali di Paolo Sorrentino, e ne rileva gli spiccati intenti nel panorama del nuovo cinema italiano. La recitazione degli attori risulta poi altrettanto efficacemente curata: attori di contorno molto ben diretti danno sostanza a personaggi caricati dal forte pessimismo della scrittura e fanno da contorno alla straordinaria performance di Toni Servillo, mostro di tecnica ed abile gestore dei tempi recitativi, capace di riempire lo schermo con un sopracciglio arcuato o una sofferta tirata di sigaretta. Il connubio Sorrentino/Servillo stabilisce così un'alchimia sorprendente e rimanda direttamente a referenti illustri della storia del cinema, altro dato utile in questo processo di analisi che vorrebbe elevare le intenzione profondamente autoriali del giovane talento napoletano. Musica e pathos: questa miscela stilistica, operativa in entrambi i film, dispiega appieno la poetica sorrentiniana, producendo un contrappunto lirico soffuso e malinconico, che restituisce tutta la sensibilità del regista. Può piacere o non piacere, è senza dubbio il traguardo cui egli aspira: incantare le platee, regalare emozioni. È proprio qui che va riscontrata la riuscita di queste due pellicole: la poetica struggente di una speranza, la speranza che esista sempre una vita in più: la vita di un altro, ovviamente, che possa rimpiazzare la nostra, giustificare il sacrificio con cui siamo disposti a sbarazzarci di quella che, difficile da vivere, ci vorrebbero imporre in ogni caso di accettare come la sola condizione esistenziale possibile. A volte è troppo oneroso, impossibile. Meglio vivere e combattere per qualcun altro. L'importante è riscontrare che un valore al di là della vita stessa è possibile, ed è questa piccola "escrescenza", difficile da accettare e di cui forse ci si può prendere carico, a dare senso alla nostra esistenza. |