Frank Tashlin
L’organizzatore del disordine
di Giovanni Taddeo

 
 
Frank e Jerry
Frank Tashlin (1913-1972) è stato sceneggiatore, regista e produttore di film (d’animazione e dal vero) e di programmi televisivi, scrittore ed illustratore di libri per l’infanzia, autore di programmi radiofonici ed opere su disco, aspirante commediografo e romanziere. È stato uno dei talenti utilizzati da Hollywood tra la metà degli anni Trenta e gli anni Sessanta, con particolare fortuna negli anni Cinquanta e Sessanta, quando ha trovato nell’attore Jerry Lewis un medium ideale per il genere a lui congeniale (quello comico-farsesco) ed un allievo che lo supererà.
Dal 1951 al 1968 Tashlin ha diretto ventitré film dal vero, dimostrandosi un cineasta davvero a suo agio nello sfruttamento delle potenzialità della fotografia a colori e del grande schermo (fosse il VistaVision della Paramount o il CinemaScope della Twentieth Century Fox), in sintonia col revival di generi come il kolossal e la slapstick comedy, in auge nel muto e riproposti negli anni Cinquanta e Sessanta con le nuove attrattive del colore e del grande schermo.
L’attore con cui ha il sodalizio più lungo è, lo abbiamo detto, Jerry Lewis. Con lui gira otto film: Artisti e modelle (1955), Hollywood o morte (1956), Il balio asciutto (1958), Il ponticello sul fiume dei guai (1958), Il cenerentolo (1960), Sherlocko…investigatore sciocco (1962), Dove vai sono guai (1963), Pazzi, pupe e pillole (1964).
Gli altri attori che incontriamo spesso nelle produzioni dirette da Tashlin sono Bob Hope (con cui apre e chiude la carriera), Jayne Mansfield (con cui gira Gangster cerca moglie nel 1956 e La bionda esplosiva nel 1957), Anita Ekberg, Doris Day, Debbie Reynolds, Dean Martin, Tony Randall, Tom Ewell. Una menzione speciale merita un’esordiente d’eccezione, Shirley MacLaine, che nel 1955 si presenta sugli schermi sia con La congiura degli innocenti di Hitchcock che in Artisti e modelle di Tashlin.

Lo stile e i temi
Il suo stile trova le radici nell’esperienza prima di caricaturista e disegnatore di fumetti poi di animatore alla Warner Bros., negli anni Trenta e Quaranta, alla corte di Leon Schlesinger, come altri geniali autori di cartoni animati, quali Tex Avery e Chuck Jones, che condividono con lui una vena comica in cui il fantastico e la violenza, accostati, fanno pensare a certe invenzioni surrealiste.
Ma il grande maestro di Tashlin è Mack Sennett, divulgatore in America della commedia d’inseguimento di origine francese dagli anni Dieci agli altri Trenta, assieme al grande avversario Hal Roach, creatore della coppia comica Laurel & Hardy, ricalcando la quale la Paramount lancia prima Hope & Crosby, poi Martin & Lewis.
La slapstick comedy, la commedia farsesca, è dunque il genere cinematografico che Tashlin privilegia per il suo colloquio con lo spettatore (ma girerà anche commedie brillanti, musicali e poliziesche). Il filtro attraverso cui egli rappresenta gli Stati Uniti per evidenziarne, con le armi della parodia e della scrittura astratta e stilizzata del caricaturista, i vizi e le stupidità.
Questo stile, che privilegia l’immagine visiva alla gag verbale (come la goffa parlata del Picchiatello Jerry Lewis, invenzione del doppiaggio italiano), ha avuto tra i suoi recensori francesi, spesso entusiasti, i critici di varie riviste, come «Positif» e i «Cahiers du Cinéma» (André Bazin, Jean-Luc Godard, Eric Rohmer, Robert Benayoun, François Truffaut, Jacques Rivette, André Téchiné, Serge Daney, Jacques Doniol-Valcroze) ed ha influenzato Peter Bogdanovich (che lo omaggerà in Ma papà ti manda sola?), Joe Dante, Robert Zemeckis, Quentin Tarantino. «Il Frank Tashlin del porno», Russ Meyer, ha tenuto ben presente questo gusto camp per il racconto a fumetti nonsense, che d’altronde sembra aver influenzato anche John Waters e Pedro Almodovar.
L’odierno dibattito sul cinema e sulla televisione spazzatura in Italia, come i precedenti e simili dibattiti sul fumetto horror, sembra fatto apposta per attirare l’attenzione maliziosa di questo regista, che nei suoi film non ha mai mancato di punzecchiare i colleghi del “piccolo schermo”.
Il contesto in cui egli realizza la sua opera comica è il mondo moderno, in cui la produzione industriale su grande scala sancisce la prevalenza degli oggetti standardizzati sugli esseri umani: l’inautentico, l’artificiale, il sintetico trionfa sull’individuo.
Tra i principali responsabili della contraffazione dell’esperienza reale, sostituita con la pseudorealtà fornita dalla mediazione della cultura delle macchine e dell’industria sono i mezzi di comunicazione di massa. Cinema, tv, pubblicità, letteratura narrativa d’intrattenimento popolare, fumetto e musica leggera appaiono come strumenti alienati ed alienanti. Attraverso di essi l’industria culturale esprime una comunicazione drogata con un pubblico eterodiretto, composto da adulti e giovani immaturi, frustrati psicologicamente ed insoddisfatti di se stessi. I capelli biondi ossigenati e le protesi per il seno che sembrano essere modelli estetici per le donne, le scarpe con il tacco confezionate ai produttori hollywoodiani perché sembrino più alti (ne La bionda esplosiva) sono solo degli esempi che confermano che ognuno di noi si presenta agli altri con una maschera sociale.
Nessuno si salva. Persino gli animali domestici hanno bisogno dello psichiatra nei film di Tashlin (la cagnetta di Anita Ekberg in Hollywood o morte).Una contraddizione esemplare
C’è una distanza evidente tra la vita promessa e rappresentata dai mass media e quella reale, vissuta dagli americani. Tashlin lo sa. Eppure anche Tashlin è vittima di un’insanabile contraddizione: è uno “spacciatore” di sogni che lavora a Hollywood, nel cuore del sistema che prende in giro.
Sperimenta vie nuove del film farsesco e brillante, riallacciandosi alle tradizioni del cinema comico muto e della vignetta satirica.
Ma rimane dentro il sistema dei generi e del divismo, senza scardinarlo dall’interno come Altman; non tenta una scrittura moderna del film, come l’allievo Lewis, che invece esibisce la finzione e l’intervento del regista nella messa in scena ed abbandona lo spettatore in un mondo che non ha più quel senso univoco, forte e coerente, proprio dell’universo del film classico hollywoodiano.
Resta indeciso tra un costante tono patetico-sentimentale (con cui ambisce a confrontarsi con Capra e Chaplin) e la prevalente, impietosa, vena comico-satirica (che guarda invece a Preston Sturges e Billy Wilder). Purtroppo, il melodramma di Tashlin (e Lewis) sacrifica il dubbio e lo scetticismo ad un’etica dei buoni sentimenti spesso dolciastra e ipocrita, resta prigioniero di un moralismo hollywoodiano puritano, manicheo, rigido, senza sfumature, semplicistico.
L’atteggiamento nei confronti del mondo che rappresenta in chiave critica e sarcastica è ambiguo. Ama i segni artificiali che abitano i prodotti di quest’arte industrializzata e mercificata, che recupera con nostalgica e filologica passione. Jerry Lewis è una sintesi nevrotica ed isterica dei vari comici del muto; Jayne Mansfield ed Anita Ekberg sono figure femminili mitizzate e finte, versioni supervitaminiche di Marilyn Monroe, delle pin ups illustrate da Vargas, Petty, Elvgren, nonché delle modelle del paginone centrale di «Playboy».
Quella di Tashlin è un’opera “di passaggio” tra film americano classico e quella New Hollywood che guarda all’Europa come fonte d’ispirazione. Forse un’occasione perduta, irrisolta tra cattiveria e tenerezza verso un mondo insincero e “volgare” che il regista contribuisce ad edificare e che non può rifiutare.