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All'interno del panorama hollywoodiano degli anni '60 e '70, uno degli autori che sicuramente ha contribuito a riscrivere le regole estetiche del cinema americano, determinando poi la nascita di quel gruppo di cineasti che sono andati a comporre poi la cosiddetta "Nuova Hollywood", è stato sicuramente Arthur Penn. Come i più grandi nomi della cinematografia contemporanea e statunitense, Penn ha saputo coniugare una personalissima poetica con i ferrei codici del cinema americano classico, che ha basato la propria forza industriale e simbolica sul collaudato concetto di genere. Già il suo primo successo di pubblico, il melodramma The Miracle Worker (Anna dei Miracoli, 1962), aveva in sé tutte le caratteristiche proprie del miglior cinema di Penn, e cioè l'essere prodotto facilmente codificabile all'interno del sistema "mainstream" e allo stesso tempo pellicola intrisa di un'estetica cinematografica fortemente autoriale, soprattutto nella gestione del ritmo dell'immagine e nello svolgersi della vicenda. Ma il film che ha "cambiato le regole", ed ha contribuito in maniera decisiva alla nascita di una nuova pagina di cinema americano, è stato senza dubbio Bonnie & Clyde (Gangster Story, 1967): ritmo di montaggio per quel tempo vertiginoso, regia tutta sopra le righe e decisamente "presente", violenza sempre esposta, fino al limite dell'iperrealismo; il film ha aperto la via a tutta un a serie di nuove idee di scrittura cinematografica, che ha portato poi all'affermazione di altri grandi "maestri" come Martin Scorsese, William Friedkin, Francis Ford Coppola, Michael Cimino, tanto per citarne alcuni. Ma Penn non soltanto si è rivelato un precursore nel saper ri-scrivere il cinema americano in quegli anni vacillante, ma ha anche saputo riprendere alcuni generi e riproporli in maniera ovviamente personale, che spesso ha voluto dire anche ironia, quando non addirittura sarcasmo nei confronti del genere stesso e dei suoi clichés: non è forse il caso di Little Big Man (Piccolo Grande Uomo, 1970), uno dei western più caustici e smitizzanti di quel periodo? Ma affrontare i generi classici americani non ha significato per il cineasta soltanto un'operazione leggera e de-mitizzante: opere pessimiste e disincantate come Night Moves (Bersaglio di Notte, 1975) e soprattutto il bellissimo The Missouri Breaks (Missouri, 1976) sono ardite operazioni di inserimento di una personale idea di cinema all'interno di strutture pienamente collaudate. Il finale tragico e nichilista di Bersaglio di Notte, o quello straordinario di Missouri, con il duello tra Nicholson e Brando che alla fine non avviene, possono rappresentare al meglio la poetica di Arthur Penn, cantore di personaggi sempre ai margini della società (ladri, rapinatori, ma anche detective) girovaghi e spaesati in un mondo dove i valori e le regole etiche si assottigliano sempre più. |