Nick's movie - lampi sull'acqua
Lampi di vita
di Donatella Valeri


Nuovo cinema tedesco
  Lightning Over Water – Nick’s Movie, Germania, 1979-80
di Wim Wenders, con Nicholas Ray, Wim Wenders, Susan Ray, Tim Ray, Tom Farrel, Ronee Blacley

L’incontro tra Nicholas Ray e Wim Wenders risale al 1976, quando il regista americano decise di interpretare il personaggio del pittore Derwatt in L’amico americano. Lampi sull’acqua (Lightning Over Water) prende l’avvio da quell’incontro e dall’intenso legame affettivo e professionale che ne scaturì. Dapprima semplice progetto di film, Lampi sull’acqua diviene realtà a seguito di uno dei tanti incontri dei due registi, l’uno impegnato nelle riprese di Hammett, l’altro nel tentativo di portare a termine una pellicola sperimentale iniziata nel 1971, We Can’t Go Home Again.
La malattia, i progetti futuri condivisi, il disagio, la sofferenza scaturiscono dall’intimità evidente sin dall’arrivo di Wenders nell’appartamento di Ray.
Si potrebbe parlare di Lampi sull’acqua come di un film di pura immagine, di un film che palesa orgogliosamente il proprio Autore e il suo atto creativo. Nick’s Movie è il sottotitolo che il regista tedesco ha voluto aggiungere in un secondo momento (la prima versione del film, presentata a Cannes e montata da Peter Przygodda durava circa 30 minuti in più), quasi a voler modestamente mascherare la potenza del risultato finale, che molto deve a Wenders e all’opera d’arte stessa più che a Ray. Filmare un corpo e renderlo all’eternità fantasmatica, filmarlo e imprimere gli ultimi gesti e parole che somigliano a confessioni: Lampi sull’acqua non è solo questo. La scoperta diretta del potere cinematografico: l’alternanza del 35 mm e del video sancisce il netto predominio della finzione sul documentario, predominio che nulla toglie alla realtà dei sentimenti (e del dolore).
Nicholas Ray muore prima che il film sia terminato e la sua assenza irrompe prepotentemente nella pellicola. Ma è l’atto meno doloroso nel lungo itinerario del film che sceglie l’attesa della morte a soggetto. Il commiato finale – la troupe al completo sulla giunca (che doveva essere la protagonista dell’ultimo film di Ray mai girato e che doveva intitolarsi Lightning Over Water) – all’insegna della serenità e delle risate, è anche un addio liberatorio alla pellicola terminata. E la finzione irrompe, come ha fatto sin dall’inizio, nelle sequenze di allestimento del set (nell’appartamento del regista americano), di preparazione degli attori (rivolgendosi alla troupe, Nick Ray chiede “Come sono venuto?… Si capiva che stavo recitando?”), negli attori che recitano sostituendosi alle persone reali (nella sequenza dell’ospedale è la moglie del regista tedesco, la cantante Ronee Blackley, a impersonare la figlia di Ray in un lungo “intimo” dialogo), nel quadro che si allarga a contemplare microfoni, macchine da presa, luci, cavi, nei frequenti consigli tecnici di Wenders. Eppure Lampi sull’acqua è un reiterarsi di sprazzi di realtà che superano la finzione. Le sequenze di finzione continuamente svelate non fanno altro che accentuare il potere e la missione delle immagini.
Testamento di un uomo di fronte alla propria morte (di cui paradossalmente vorrebbe viverne solo l’esperienza, rimanendo vivo) e dichiarazione d’autore di Wenders, ex pittore qui davanti all’eterna presenza implacabile della morte in ogni opera d’arte.
Il volto illuminato di Nicholas Ray, che parla del suo film The Lusty Man al college di Vassar, sporge, come un bassorilievo, da uno sfondo buio, suggerendo quella stessa fissità dei ritratti funerari. Immobilità fisica che anticipa l’eterno ricercato. Sofferenza, rimpianti, amore per il cinema, scivolano nel rigor mortis di un volto che parla quasi immobile, anticipando il medesimo sentimento che nasce dall’ultima sequenza di Ray vivo.
Uno dei film più apertamente baziniani nel suo tentativo di “strappare il corpo al flusso della durata: ricondurlo alla vita”.