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the Long goodbye, Usa, 1973 di Robert Altman, con Elliott Gould, Sterling Hayden, Nina Van Pallandt, Mark Rydell Il “Noir”, il più “giovane” dei generi cinematografici, nato dall’acume della critica francese in un’epoca subito successiva a quella caratterizzata dalla produzione dei capolavori del genere stesso, è soggetto, tra gli anni Sessanta e Settanta, ad un trattamento violentemente revisionista; del resto, non è l’unico genere a cui capiti: siamo nel bel mezzo del periodo di maggior rinnovamento del cinema americano dai tempi dell’avvento del sonoro, e tutto ciò che un tempo era stato codificato come “classico” viene ora tendenziosamente ribaltato, e deputato a trasmettere l’ideologia rivoluzionaria tipica del contesto socio – politico del momento. Per un autore che vivesse la temperie revisionista degli anni, oltre a quello che sarà di Scorsese – con Taxi driver, per molti versi il capolavoro assoluto del cineasta - c’era un altro modo di riaffrontare il Noir: quello, ovviamente, di riprendere proprio la materia del periodo classico, il che voleva dire tornare all’ “hard boiled” di Raymond Chandler e al suo mitico Philip Marlowe. E’ cio che fa Robert Altman , alfiere principe del Nuovo Cinema Americano, forse colui che più di tutti ha fatto per la decostruzione del genere, oltre che della narrazione “forte” in senso lato. the Long goodbye (il titolo è lo stesso del romanzo da cui è tratto il film) è l’opera numero nove dell’autore di M.A.S.H. (1970) e di Nashville (1975). Egli situa l’azione del libro (a cui apporta delle modifiche fondamentali) nella Los Angeles contemporanea, e non può non farne anche un discorso su Hollywood. Affida il personaggio del “private eye” Marlowe nientemeno che al “suo” Elliott Gould, e ne fa un tipico anti-eroe degli anni Settanta. Inoltre, Altman cambia il finale; nel film, il detective spara all’amico colpevole d’aver tradito la sua fiducia, cosa che non accade nel libro. Chiusa amarissima della vicenda cinematografica, che ha visto il protagonista perdere tutto, “anche il suo gatto”, facendolo rientrare nello statuto di “loser” per eccellenza del cinema del proprio tempo. Ecco cos’è ormai il glorioso investigatore privato, per l’”eretico” Altman: un perdente, uno sradicato, quasi un “escluso”, un marginale della società: basti pensare alla torre d’avorio nella quale vive, solo in compagnia del gatto, totalmente tagliato fuori dal viver civile, quasi a significare il suo dissenso verso certi valori negativi, lui che invece crede solo nell’amicizia. Altman cita un’intero schema narrativo – a rappresentarlo la collaborazione in sceneggiatura dell’autore de il Grande sonno di Hawks, Leigh Brackett - quello del Noir classico: Marlowe viene incaricato da una fascinosa donna – la “femme fatale” di turno, interpretata da Nina Van Pallandt – di ritrovare il di lei marito scomparso, un celebre scrittore con problemi d’alcolismo. La storia si intreccia con quella di un caro amico del protagonista, scomparso anch’egli dopo la misteriosa morte della moglie; la sconfitta di Marlowe sarà totale, tradito dall’amico che scopre essere in combutta con la moglie stessa dello scrittore, con la quale aveva ucciso la propria. Marlowe spara all’uomo, colpevole d’aver distrutto l’unico valore per lui importante, dopo che perfino il suo gatto - “personaggio” fondamentale che apre il film - l’aveva abbandonato per una marca di cibo migliore. Noir estivo, luminoso tranne che per un paio di memorabili sequenze notturne – il suicidio in mare dello scrittore, uno Sterling Hayden d’annata – il film di Altman è qualcosa di molto complesso: come abbiamo visto, non rivolta tanto il genere a livello formale – non solo, almeno: ma guardate con che libertà sintattica gira e monta l’autore - quanto ne eredita il classico meccanismo “citandolo” e smascherandone l’illusorietà e soprattutto l’inutilità dell’etica di fondo – quella che guidava l’integro e leale “occhio privato” nelle sue azioni - con lo scopo di puntare il dito contro i mali della società moderna, simbolicamente “uccisi” dal colpo di pistola finale di Marlowe. Quest’ultimo è il “grimaldello” che Altman usa per scassinare la solidità della struttura, che fa per deviare spesso dal filo narrativo, ma senza distaccarsene mai completamente; e il ciondolare del protagonista è perfettamente in tono con la raffinata ironia che pervade tutto il film. L’autore, con un sorriso sulle labbra che è piuttosto un ghigno, dice qualcosa di definitivo sul genere che affronta, e lo fa passando per la porta principale, puntando cioè il suo discorso demistificatore su Hollywood stessa. L’aspetto della “nostalgia”, altra direttrice fondamentale della produzione anni Settanta, è qui centrale anche su un piano più sottile rispetto a quello immediato della citazione dei meccanismi di un genere di trent’anni prima; ne il Lungo addio, infatti, si respira in continuazione l’aria di un passato principalmente cinematografico: Marlowe prima dice di “chiamarsi Marlon Brando”, poi imita Al Jolson che canta “Swanee”; il portiere del passaggio a livello del cottage a Malibu mima a sua volta prima Greer Garson, poi John Wayne e quindi Walter Brennan, in un continuo gioco di ammiccamenti diretti allo spettatore. Da questo punto di vista, tutto concorre a dare l’impressione che si faccia sempre riferimento ad un mondo ormai estinto, irrimediabilmente confinato indietro nel tempo. Chiosa così Franco La Polla – nel suo importante “Il nuovo cinema americano 1967 – 1975” - a proposito della “presenza” nel testo dei trascorsi del genere e della morte di un “mito” ormai anacronistico, sottolineando così la polivalenza del gesto finale del protagonista: “Col colpo di pistola sparato da Marlowe all’amico traditore (del tutto assente nel romanzo) il detective di un tempo si prende la sua vendetta non solo su chi l’ha ingannato, ma su tutto il cinema che nel passato l’ha costretto alle sue iterate sconfitte: con un atto imprevedibile, assolutamente stridente con quello che il personaggio ha dimostrato d’essere lungo tutto l’arco della vicenda che lo riguarda, Marlowe decide di non essere più se stesso, dal momento che storicamente egli da tempo non esiste più, come la cultura che l’ha prodotto, come il cinema che l’ha descritto (corsivo mio)”. Con quel colpo di pistola, insomma, muore il passato, ma soprattutto muore Philip Marlowe. D’ora in avanti, il cinema americano vedrà solo incarnazioni del detective di Chandler, ed ognuna di esse si porterà dentro l’anima amara dell’”addio” con cui Robert Altman, nel 1973, aveva salutato il genere.
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