Butch Cassidy
Nel sorriso di un pistolero
di Adriano Ercolani

 
  Butch Cassidy & Sundance Kid, Usa, 1969
di George Roy Hill,con Paul Newman, Robert Redford, Katherine Ross.

Nella storia del “nuovo” cinema western, quello revisionista e ormai lontano dal periodo cosiddetto classico, il 1969 è stato un anno fondamentale: se Sam Peckinpah con Il Mucchio Selvaggio (The Wild Bunch, 1969) decretava definitivamente la morte (violenta) dell’eroe della frontiera, inserendolo in un mondo dominato dalla violenza e dall’assenza di un ordine morale, e spostando allo stesso tempo le regole estetiche del genere con delle forzature stilistiche prima d’allora inusitate (vedi l’uso vertiginoso del montaggio o quello del ralenty), operazione differente ma non opposta compiva il più sapido George Roy Hill con Butch Cassidy, pellicola che probabilmente dalla critica internazionale non ha avuto l’attenzione che meritava, soprattutto per il fatto di essere comunque un prodotto “mainstream”, perfettamente inserito all’interno dell’industria hollywoodiana. Fin dalla prima, enigmatica scena all’interno di quella che poi scopriremo essere una banca, la matrice estetica di Butch Cassidy si presenta come particolarissima, spiazzante, ipnotica: in un colore desaturato fin quasi a rasentare il bianco e nero, un Paul Newman entra silenzioso ed attonito in una stanza buia, ed immediatamente viene quasi sommerso dall’oscurità; a rompere il silenzio vi sono soltanto rumori secchi e schioccanti delle imposte che vengono chiuse in fretta e furia, in faccia all’uomo che sembra disorientato, passivo, inerme. In un impasto denso e malinconico di nero e toni caldi come il giallo ocra i il marrone, Butch Cassidy si guarda intorno e sembra fuori posto, fuori tempo, personaggio non a suo agio nell’ambiente che lo circonda; l’usciere gli chiederà gentilmente di accomodarsi all’esterno, che la banca sta chiudendo, e lui obbedirà innocuo e servizievole. Ecco che l’eroe classico del western, fin dall’incipit della sua presentazione, non domina più il mondo che lo circonda, ma ne viene inghiottito. Questa rimarrà una costante simbolica presente per tutto il film, in cui sia gli interni che in seguito gli sterminati paesaggi delle praterie soffocano i personaggi, li annientano nella loro grandezza: esempio fondamentale è la lunga sequenza dell’inseguimento dei due protagonisti, in cui la banda di uomini di legge che si trova alle calcagna dei fugiaschi in pratica non viene raffigurata, è sempre un puntino che corre all’orizzonte. Anche questa volutamente mancata denotazione di un avversario, di un antagonista, si presenta come altro efficace simbolo di un mondo che non ha più identità precisa, sia nella connotazione positiva che in quella negativa: come nel film di Peckinpah, i due protagonisti, per cui non possiamo non parteggiare, sono dei fuorilegge, mentre i “cattivi” sono prima gli sceriffi inseguitori che in seguito l’esercito boliviano nella scena finale. Altro sintomo della ormai inevitabile decadenza della figura dell’eroe pistolero sono i dialoghi del film: invece di battute memorabili, pregne di significati e retorica, Butch Cassidy e Sundance Kid vanno avanti grazie all’ironia, agli sberleffi reciproci, talvolta al sarcasmo più crudo. La strepitosa sceneggiatura di William Goldman tratteggia due non-caratteri, ma semplicemente due figure in chiaro-scuro, magnificamente monodimensionali: per tutta la durata del film i due protagonisti non hanno un arco narrativo vero e proprio, anche se tentano di averlo, proprio perché si tratta di due figure (ormai) fuori dal tempo: i due amici tenteranno di cambiare abitudini, di cambiare vita, ma riescono soltanto a cambiare terra, e finiscono a rapinare banche in mezzo alle galline spelacchiate della Bolivia. Non più dunque uomini tutti d’un pezzo, ma anti-eroi dissacranti e disillusi su se stessi e la propria condizione, ormai anacronistica, in un mondo che sta cambiando. Butch proverà a cavalcare la bicicletta, poi cadrà e la manderà al diavolo: “Forse sarai il futuro, ma al presente non servi...”.
Allo stesso modo dei grandi western contemporanei, e pensiamo soprattutto a Gli Spietati (Unforgiven, 1992) di Eastwood, Butch Cassidy è un film che parla di fantasmi, o meglio di persone che non esistono più, non sono più in sintonia col mondo ed il tempo in cui si trovano; se però gli altri film di genere hanno trattato questo tipo di personaggio in maniera melodrammatica o elegiaca, il film di Hill sceglie la strada più tortuosa ma leggera del disincanto, dell’ironia; altro esempio in questo senso verrà poi sempre dal grande Peckinpah con La Ballata di Cable Hogue (The Ballad of Cable Hogue, 1970); ecco perciò che il film dell’autore del successivo cult La Stangata (The Sting, 1973) si trasforma in una sorta di oggetto strano, bizzarro, pienamente in sintonia con i suoi protagonisti. Commedia malinconica e soavemente arguta, Butch Cassidy ha poi nella messa in scena il suo grande punto di forza: merito principale è a nostro avviso da attribuire al grande lavoro sulla profondità di campo e sul colore di Conrad Hall, capace di immergere completamente i personaggi sia in esterni che in interni, e questo grazie appunto ad un innovativo (per quel periodo) lavoro sull’inquadratura e la sua profondità visiva da una parte, e sul gioco di chiaro-scuro dall’altra. La già citata scena iniziale è un vero capolavoro di uso dell’ombra come variazione cromatica che esplicita il disorientamento, lo straniamento, la caratterizzazione precisa e funzionale di un personaggio: Butch Cassidy, per il modo in cui il personaggio verrà raccontato in seguito, non poteva essere meglio introdotto che in questo modo. Alla stessa maniera la scena successiva, in cui lo stesso protagonista deve battersi con un compagno ammutinato, Newman viene immerso nel verde di una collina retrostante, messa a fuoco con una profondità di campo inusitata ed efficacissima, che staglia l’uomo allo stesso piano della natura ed allo stesso tempo lo definisce con precisione e lucidità: l’eroe non sovrasta più nulla, non si eleva più al di sopra di niente, ma rimane comunque una figura perfettamente delineata, nitida anche se decadente.
Vincitore di quattro premi Oscar (tra cui, meritatissimi, quelli per la sceneggiatura e la fotografia), Butch Cassidy è forse stato l’ultimo dei western di grande impatto con il pubblico prima che il genere entrasse definitivamente in crisi, all’inizio degli anni ’70. Diversamente dagli altri film di quel periodo, la pellicola di George Roy Hill non possiede in sé dei contenuti o dei messaggi interni “forti”, come ad esempio sono stati trovati in pellicole successive – vedi Piccolo Grande Uomo di Penn (Little Big Man, 1970) o Corvo Rosso non Avrai il mio Scalpo (Jeremiah Johnson, 1972) di Pollack -; più che voler affermare un qualcosa di eversivo o “contestatorio” rispetto alla tradizione cinematografica, il film sembra voler affermare la fine di un’epoca, di un modo di concepire il cinema western; per fare ciò, adopera l’efficacissima arma della leggerezza, una scelta che premia un prodotto capace di regalarci almeno tre o quattro scene di soave bellezza estetica e fine comicità. Butch Cassidy non urla nessun messaggio, non vuole colpire lo spettatore attraverso l’uso fortemente espressivo del mezzo-cinema. Con poche, semplici e precise idee, realizzate con coerenza e grande capacità artigianale, riesce ad arrivare al cuore ed alla testa dello spettatore, lasciandogli la sensazione di aver visto un’opera di gran classe.