Arriva un cavaliere libero e selvaggio

Stasi, collasso e morte di un genere
di Adriano Ercolani

 
  Comes a Horseman, Usa, 1978
di Alan J. Pakula, con James Caan, Jane Fonda, Jason Robards Jr., Richard Farnsworth.

Il modo migliore per analizzare la crisi di un genere cinematografico è probabilmente quello di trovare i sintomi della stessa proprio nelle “opere di confine”, in quei film cioè che si presentano come evidenti esposizioni di uno svuotamento semantico ed estetico. Questo semi-sconosciuto e poco apprezzato lungometraggio di Alan J. Pakula - uno dei grandi registi americani che negli anni ’70 ha fatto di una rarefatta sottrazione il suo marchio stilistico - si pone quindi come perfetto esempio di western che al suo interno discute metaforicamente gli ormai demoliti stilemi del genere. Non stiamo parlando del troppo abusato e celebrato concetto di “western revisionista” o del filone più crepuscolare, ma della riproposizione “bloccata” di una visione classica del mito della frontiera. In Arriva un cavaliere libero e selvaggio sono contenuti infatti tutti i principi cinematografici fondanti del periodo classico, ma rivisitati secondo una forma - coerente e precisa - che ne annulla qualsiasi effetto di sedimentazione verso la classicità.
Il primo, fondamentale momento di trapasso è già contenuto nell’ambientazione temporale della storia, scritta da Tennis Lynton Clark: non più l’età dei pionieri, ma l’inizio degli anni ’40, in un’America che con l’ingresso nella seconda Guerra Mondiale superava la crisi della “Grande Depressione” e si apprestava a trasformare definitivamente la propria economia in industriale. Nel film infatti il vero duello non è tanto tra l’avido proprietario terriero Jacob Ewing (uno straordinario Jason Robards) e l’allevatrice Ella, ma, come si esplicita più chiaramente nella seconda parte del film, tra un sistema economico e sociale ormai in declino ed un capitalismo rampante ed inarrestabile - la “banca”, che qui si ripropone con la stessa forza del mostro astratto dei migliori romanzi di Steinbeck. Nel voler rappresentare questo momento di resa il film di Pakula ha un’intuizione geniale nel delegarlo ad una splendida figura di contorno, il vecchio mandriano Dodger/Richard Farnsworth: il saggio e ferroso compagno di lavoro che incarna, nelle parole ma soprattutto sulla pelle, la mummificazione di un periodo che non può sopravvivere al progresso.
In un tipo di messa in scena che fonda il suo principio primo nella stasi, nel collasso dell’azione drammaturgica, le frasi del vecchio Dodger risuonano come l’eco di una situazione non più attuale, o meglio non più attualizzabile. Anche la sua morte, coscientemente solitaria e tenuta fuori campo, suona come immobile presa di coscienza nei confronti del western stesso, che alla fine degli anni ’70 sembrava essere un genere non più inseribile nell’immaginario collettivo americano, forse sostituito dalla nuova frontiera delle guerre stellari. Ed ecco allora che l’intero film si presenta come intenso, lucido affresco che raffigura il vuoto: Pakula scardina dalla messa in scena ogni possibile svolta che possa provocare azione, raggelando volontariamente la pellicola fino a renderla manifesto. Arriva un cavaliere libero e selvaggio non è certo un capolavoro di cinema: i personaggi sono piuttosto stereotipati, la sceneggiatura procede per accumulo, non per svolte narrative ben delineate, e soprattutto Jane Fonda è del tutto fuori parte. Il film però possiede una sinteticità di fondo che spiazza: “povero” anche nei mezzi - ci saranno quattro, massimo cinque ambienti ricostruiti in maniera volutamente spoglia - se ne rimane silenzioso ed immobile a raccontarti proprio questo, del suo non poter più essere, del suo non avere più una collocazione: non più cinema di un tempo, sicuramente non proiettabile verso il futuro. Anche la resa dei conti finale viene sbrigata in pochissime inquadrature, perché quello che conta in fondo è il dettaglio finale: il ranch, primo simbolo collettivo ed unificatore del western, brucia nel silenzio più totale. L’ultima inquadratura del film mostra in campo lunghissimo i due amanti fermi di fronte alle macerie della loro vecchia magione. I due tengono in braccio delle assi di legno: forse la dimora verrà ricostruita, ma non in questo film, non più al cinema…