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USA 1975
di Jim Sharman, con Tim Curry, Susan Sarandon, Barry
Bostwick, Meat Loaf, Richard O'Brien, musica di Richard O'Brien,
musiche dirette e arrangiate da Richard Hartley
Chi non ha guardato almeno per tre volte di seguito il più trascinante
musical di tutti i tempi, provveda subito a farlo, perché ancora
non ha visto niente.
L'enorme successo che The Rocky Horror Picture Show
si è guadagnato dalle prime rappresentazioni teatrali fino ad
oggi è più che meritato (nel 2000 in occasione del 25°
anniversario ne è stata curata una'ottima ristampa in Dvd), ed
è il sintomo più evidente del sano delirio di massa che
un'opera così travolgente riesce a creare. I motivi? La disinteressata
spontaneità con cui fu concepito, l'irresistibile comicità
e leggerezza, il richiamo continuo alle più disparate forme di
espressione (dall'horror alla commedia, dalla fantascienza al documentario,
dal giallo hitchcockiano ai b-movie, dal cabaret e i musical di Broadway
allo rock show più spregiudicato) con riferimenti a Nosferatu
di Murneau, Frankenstein Junior di Mel Brooks e quant'altro,
ma soprattutto l'esplicito riferimento al glam rock. Ed è proprio
questa la sua forza: lo spirito glam di cui è permeato, tanto
da diventare il più pregevole manifesto di questa corrente del
rock, che ha rappresentato il lato più appariscente della trasgressione
(quando ancora trasgredire aveva un senso e un valore culturale), della
carica sovversiva, degli eccessi e dell'ambiguità degli anni
'70. Il Rocky Horror è un manifesto del glam
perché contiene tutti gli aspetti di quella scena: dagli spettacoli
in perfetto stile Grand Guignol di Alice Cooper, all'ambiguità
sessuale di Ziggy Stardust. Tim Curry nei panni del Dottor Frank-N-Furter
emula i gesti di Bowie e Marc Bolan tanto egregiamente da superarli,
e diventare lui stesso la vera immortale icona del glam. La sua entrata
in scena sulle note di Sweet Transvestite, interpretata come
non avrebbe potuto fare nessun altro, è uno dei momenti più
elettrizzanti della storia dello spettacolo, che si tratti di cinema,
di teatro, di tv, o di rock. Così come I'm Going Home
cantato davanti a un pubblico immaginario, è il momento di maggiore
intensità emotiva. La morte richiama nuovamente quella di Ziggy
Stardust. I suoi capricci, la sua insaziabilità (emblematica
è la frase: "Non è facile divertirsi. Perfino
ridere mi fa dolere la faccia."), la sua crudeltà,
la sua ambiguità, i sui vizi, la sua mania di potenza, la sua
solitudine, la sua genialità, la sua vanità sono gli stessi
di una rockstar che si rispetti. Per non parlare della presenza di Meat
Loaf (nome d'arte di Marvin Lee Aday), all'epoca ancora sconosciuto,
nei panni del teppista Eddie, suo alter-ego ed emblema dello spirito
più selvaggio e brutale del rock.
E le musiche scritte da Richard O'Brien (nei panni di Riff Raff) e dirette
e arrangiate egregiamente da Richard Hartley, sono un perfetto compendio
della musica delle prime commedie musicali americane mischiate al pop
e al secco ed energico glam rock degli anni '70. Il cui unico emblematico
insegnamento è riassunto nella frase cantata da Frank-N-Furter
nella piscina: "Don't dream it / be it".
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