|
Id., Italia, 1962
di Michelangelo Antonioni, musiche di Giovanni Fusco dirette da Franco Ferrara.
Ad essere sinceri pare che l’amore sia, in tutte le sue forme, la condivisione più nobile di un senso di vuoto abissale connaturato all’esistenza stessa. E l’anelito all’eterno, all’assoluto, mai appagato, che deriva dallo stato “narcotico” di innamoramento, è una controindicazione alla quale spesso gli esseri umani vengono esposti. Ci si accorge presto del fatto che parlare, in realtà, non serve a comunicare nulla, così come agire per appagare un’aspettativa risulta spesso illusorio. Così i desideri, essendo frustrati, si moltiplicano all’infinito, fino a creare una “cicatrice interiore” e un senso di solitudine totale.
Piero (Alain Delon) e Vittoria (Monica Vitti) sono due mondi interiori che incontrano soltanto la loro esteriorità, senza perciò conoscersi affatto. I loro dialoghi sono sospesi, frammentari, fatti di silenzi e frasi non dette, o dette a metà, gesti non compiuti, sguardi sfuggenti e interrogativi. A sua volta la musica di Giovanni Fusco (1906-1968), personaggio determinante nel panorama della musica per film, in questo caso più che esserci non c’è, o non si sente. Eccetto che per i titoli di testa - a commento dei quali si ascolta il twist cantato da Mina, presto «eclissato» dallo stridere degli ottoni, e dagli accordi di piano scollegati e sospesi nel vuoto - la musica qui diventa pura immagine. Nello spaesamento narrativo del film, come un po’ in tutti i film di Antonioni, ogni rumore, ogni dialogo, ogni suono diventa espressione intradiegetica dell’inconscio. Tutto è musica, e Fusco si fa da parte per inserire i suoi frammenti musicali come elementi attivi e insostituibili della trama. Come quando Vittoria a casa dell’amica osserva le immagini del Kenya e mette su un disco di musica africana: in quel momento le percussioni diventano rappresentazione del processo inconscio di identificazione di Vittoria con la foto degli indigeni. Allo stesso modo il vociare convulso, nevrotico e spietato nella Borsa è la riproduzione sonora dal mondo interiore di Piero, antitetico e complementare a quello di Vittoria.
La loro storia non ha sbocchi, si corteggiano all’infinito nell’attesa di qualcosa di indefinito, senza mai consumare. Vittoria cambia in continuazione discorso, umore, espressione, obiettivo, spiazzando Piero, e mettendo in crisi le sue certezze, mostrandogli l’enigma dell’esistenza: «Chissà perché si fanno tante domande… Io credo che non bisogna conoscersi per volersi bene… e poi forse non bisogna volersi bene…», oppure «Vorrei non amarti… o amarti molto meglio…». Nel momento in cui il loro amore si sta per concretizzare si promettono di rivedersi ancora, sapendo che non sarà così. Ed ecco il ritorno dei frammenti visivi e sonori che hanno accompagnato la storia fra i due nel corso del film: il suono dei telefoni, il rumore delle automobili, la donna col passeggino, lo scrosciare dell’acqua, i mattoni, il secchio con l’acqua, l’albero, l’impalcatura, il fantino e il cavallo, la musica inquietante e dissonante,un uomo che cammina, l’autobus, gli accordi staccati e atonali del piano, il cancello, i bambini che giocano, la gente che cammina o che osserva immobile, e poi l’eclisse, l’oscurità. E il silenzio. |