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Dirt
id., Usa, 2007
creato da Matthew Carnahan, con Courtney Cox, Ian Hart, William McCormack, Josh Stewart

Sporcizia a piene mani
di Paola Galgani



Dallo scorso 14 ottobre va in onda in seconda serata su La7 (canale che ha inaugurato serie "scandalose" come Sex and the City e The L World) la serie Dirt, con la quale si spera di raggiungere in Italia un successo pari a quello degli USA, dove è stata trasmessa sul canale Fox (ma è andata molto bene anche nel Regno Unito ed in Nuova Zelanda).
Dirt gioca tutto, almeno per l’appeal iniziale, sulla sua portentosa protagonista: si tratta infatti dell’attrice Courtney Cox, a suo tempo indicata (e non senza motivo) come la donna più bella del mondo. Ebbene, smessi gli amatissimi panni della metodica, dolce e rassicurante Monica di Friends, la Cox, truccatissima ed in ottima forma, riveste quelli più glamour e scioccanti della spietata Lucy Spiller, caporedattrice della rivista scandalistica Dirt (una "Novella 2000" in salsa americana). Un magazine di tal fatta, che per di più ha sede a Los Angeles, si nutre di inganni, ricatti, soffiate, ponendosi come compito di rendere pubblica la "sporcizia" di tutto il mondo dorato di Hollywood; sesso, droga e drammi familiari sono pane quotidiano per i denti dell’agguerrita redazione, a condizione che le notizie pubblicate siano rigorosamente autentiche e documentate da straordinarie foto, opera del talentuoso (nel suo specifico campo) fotoreporter Don Conkey, ex compagno di scuola di Lucy e sofferente di crisi schizofreniche.
Pare che l’idea della serie sia venuta in mente alla stessa Cox quando, incinta del suo ultimo figlio, non riusciva a staccasi i paparazzi di dosso; eccola dunque come produttrice esecutiva, oltre che protagonista, di un progetto in cui evidentemente profonde tutte le sue energie, e con ottimi risultati. La serie infatti gode, oltre che di una solida regia, di una narrazione accuratissima; è piena di ritmo, flash-back e colpi di scena, accattivante per l’originale e scintillante ambientazione, e coraggiosa nel non tirarsi indietro davanti a patinate scene di sesso spinto o di uso di droghe (ovviamente i bambini non sono contemplati tra gli spettatori abituali) né davanti al quotidiano turpiloquio - un tempo tipicamente "maschile" - che sulle sensuali labbra di Lucy quasi perde la sua connotazione volgare per sottolinearne l’ inevitabile aggressività data dal ruolo (peccato che con la voce della pur brava doppiatrice italiana Barbara De Bortoli si perdano il tono ed il ritmo grintoso della Cox). Il personaggio è studiato con cura, e non riusciamo a non innamorarcene pur sconcertati dalla sua - apparente? - amoralità e freddezza (in un episodio Lucy resta indifferente alla brutale uccisione del suo assistente per opera di un pazzo che segrega tutta la redazione).
In ogni successiva puntata scopriamo le fragilità di una donna apparentemente tutta d’un pezzo, in realtà condannata all’autopunizione di una vita di solo lavoro "sporco", e alla solitudine conseguente alle sue scelte; con gli uomini è un disastro, tanto che in vita sua non ha mai provato un orgasmo se non grazie al suo inseparabile vibratore. Per fortuna l’attore Holt McLaren, inizialmente ricattato per uno scoop, poi diventato Lucy-dipendente, la aiuterà ad ampliare i suoi orizzonti sessuali. In seguito, con l’entrata in scena dell’infido fratello gay (autore di un colpo di scena alla fine della prima serie) e della distaccata madre si risale - psicanaliticamente? - al senso di colpa nato nel momento in cui una Lucy quattordicenne vide il padre impiccarsi. Infine, per mezzo del portentoso personaggio di Don Conkey, voce narrante che apre ogni puntata col tormentone “Salve, sono Don Hunkey, faccio fotografie, sono uno schizofrenico funzionale” (seguito da uno spedito riassunto delle puntate precedenti) scopriamo l’umanità di Lucy nel preoccuparsi della salute del suo amico d’infanzia; ma anche la sua capacità manipolatoria, che arriva a spingere sottilmente l’uomo, pur di avere uno scoop, ad atti estremi come quello di troncarsi il dito mignolo per farsi ricoverare nell’ospedale di una famosa star. Le allucinazioni di Don, oltre a costruire un suo bizzarro mondo immaginario in cui attrici morte partoriscono micetti, matrigne riemergono dal passato, gatti parlanti vengono immortalati in vezzosi altarini, sono il pretesto per scelte grafiche interessanti come l’inquietante pioggia di sangue o i serpentelli in stile fumetto che Don immagina di vedere uscire dalle persone che lo circondano. Ma dal punto di vista grafico ci sono varie altre note positive, come l’apparizione delle future copertine di "Dirt" formate dalle immagini delle malcapitate starlette appena colte in flagrante, nella cinica mente di Lucy (e nella nostra visuale) già ordinatamente pronte a formare i corrispondenti scoop che andranno a breve a soddisfare la pruriginosa curiosità dei lettori americani.
Un’altra divertente e non scontata trovata è che i personaggi vittime degli scoop sono tutti ispirati a star reali contemporanee, tra i quali non si stenterà a riconoscere Tom Cruise, Brad Pitt, Angelina Jolie, Britney Spears, Julia Roberts e via dicendo. Ma nel cast ci sono veri volti noti come William McCormack (Leo Spiller) visto ne I Soprano, Josh Stewart (Holt Mclaren) di CSI e soprattutto il fenomenale Ian Hart (Don Conkey), che interpretava il professor Raptor in Harry Potter e la pietra filosofale. Inoltre, guest star della prima serie sarà nell’ultima puntata Jennifer Aniston, nei panni di una collega di Lucy che si esibirà con lei in un succoso bacio lesbo.
Di puntata in puntata le tinte si fanno sempre più fosche, la narrazione più vertiginosa, i personaggi si moltiplicano ed entrano in gioco anche vari redattori della rivista; c’è da aspettarsi una svolta di stile nella seconda serie già in produzione, sempre per opera del creatore Matthew Carnahan (FX, Touchstone Television and Coquette Productions sono i co-produttori) e c’è da scommettere che prima o poi Lucy diventerà "buona". Ma sicuramente ritroveremo nella serie lo stesso coraggio nell’abbattere i tabù del puritanesimo made in USA, e la medesima rappresentazione di una Los Angeles sempre più tetra, perduta nel vacuo inseguimento di falsi ideali.