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Soldier Blue,
Usa, 1970
di Ralph Nelson, con Candice Bergen, Peter Strauss,
Donald Pleasence, John Anderson, Jorge Rivero
Soldato blu forse non è un bel film, è così
semplice da risultare semplicistico, il "cambiamento di sguardo"
che propone diventa quasi una retorica al contrario, ma, proprio per
la crudezza dell'immagine dei massacri, costituì un piccolo evento.
Alla fine degli anni'60 si verifica un profondo tentativo di rinnovamento
del cinema americano strettamente connesso ai nuovi avvenimenti politici
del decennio: l'era dei Kennedy con la riforma razziale, la guerra del
Vietnam, l'assassinio dei due Kennedy e di Martin Luther King, l'estremismo
rivoluzionario del Black Power, lo scandalo Watergate. Di fronte a tali
eventi Hollywood non può più nascondersi dietro le ragioni
di botteghino senza affrontare in maniera diretta i problemi storico-sociali
di un paese in profonda trasformazione. Il pubblico è profondamente
cambiato e non è possibile rifarsi ai vecchi generi cinematografici
ed è indicativo che nel 1967 esca una pellicola come Il laureato
di Mike Nichols, ormai fuori da ogni schema. Crolla il culto dell'eroe,
John Wayne è morto per sempre e ora si può "morire
di una morte stupida" (Franco La Polla) come in Easy Rider.
La nuova generazione è stanca di guerre atroci ed ingiuste, mascherate
dalla patina etica che doveva plasmare il cittadino medio americano:
essa chiede chiarezza, verità, vita reale. Urla il suo mai più.
Alle vecchie favole hollywoodiane, con Doris Day e Marylin Monroe, viene
contrapposta la verità dell'America quotidiana, della sua gente
reale, donne in situazioni tangibili, come Gena Rowlands che in Una
moglie (del'74 di John Cassavetes, il cui titolo originale "A
woman under the influenc"e è un modo gergale per indicare
l'essere sotto l'influenza dell'alcool) mostra le sue nevrosi. Da qui
l'attenzione al problema razziale, al movimento femminista, agli indiani
nelle riserve, la cui storia viene rivisitata e proposta sotto una nuova
luce. Attraverso Soldato blu, ma anche Un uomo chiamato cavallo
(del'69 di Eliot Silverstein) e Piccolo grande uomo (del'70 di
Arthur Penn), si rinnova il genere del western che aveva si creato delle
figure mitiche (cowboy, il pistolero, il generale Custer), ma aveva
anche umiliato e presentato in maniera distorta altre realtà.
Così fra gli anni '60-'70 non sono più gli indiani ad
essere violenti, a praticare riti inspiegabili, a violentare le donne,
ma è l'uomo bianco con la sua sete di potere e di espansione
che priva un popolo della sua terra, dei suoi spazi, delle leggende
e delle identità e lo rinchiude nelle riserve, poste "oltre
i confini del viver civile". Il film si apre e si chiude con due
massacri. Il primo avviene ad opera dei pellirossa su una carovana di
bianchi che trasporta una cassa piena di soldi. Certamente è
un attacco necessario perché i soldi costituiscono la possibilità
di acquistare dei fucili per difendersi dall'aggressione indiscriminata
del bianco, ma la strage è spaventosa come evidenzia l'osservazione
di Ketty a sterminio avvenuto "ci sarà da aspettare parecchio.
Se ne staranno lì a martoriare quei cadaveri per ore e ore".
Il secondo è presentato nella celebre scena finale dello sterminio
del villaggio Cheyenne ad opera della cavalleria degli Stati Uniti.
Vediamo laghi di sangue, teste tagliate, bambini rincorsi dalla furia
omicida, corpi di donne mutilati; è tutto un susseguirsi di baionette,
sciabole insanguinate, urla, fiamme, una "barocca raffigurazione
della violenza" (F. LaPolla). Il civile uomo bianco non è
stato meno feroce del selvaggio pellerossa, ed il suo infierire è
dettato solo dall'odio. Essi sono gli aggressori, gli invasori che vengono
da terre lontane ad usurpare territori che non gli appartengono ed agiscono
con crudeltà su donne e bambini senza alcuna discriminazione.
I pellirossa si devono difendere, i bianchi vogliono solo conquistare,
la differenza fra le due culture emerge in tutto, dalle trattative alle
forme di combattimento: un capo indiano è tanto più rispettabile
e temibile quanto più è coraggioso, rischia di persona,
un capo bianco è solo di rado in prima fila, perché in
genere manovra sul tavolo la tattica di combattimento in cui rischieranno
la vita i suoi soldati pronti ad eseguire ciecamente gli ordini. Non
molto diversa dalla conquista dei territori indiani deve essere sembrata
agli occhi di Nelson la partecipazione degli USA nella guerra del Vietnam.
Il regista dichiarò infatti "la posizione ufficiale del
governo è che noi stiamo in Vietnam per onorare un impegno...non
dimentichiamoci però che abbiamo stipulato 400 trattati con gli
indiani, violandoli tutti, uno dopo l'altro ...ho tenuto a mostrare
queste atrocità perché volevo proprio sconvolgere la gente,
devastare le coscienze, e ricordare con tali immagini che la follia
sanguinaria esiste ancora ai nostri giorni". Nel film assistiamo
al lungo errare dei due protagonisti, gli unici scampati all'assalto
dei pellirossa, il soldato Honus e Ketty, la giovane bianca sottratta
ai Cheyenne. Nel loro diverso avvicinarsi alla meta, si realizza il
capovolgimento del luogo comune dell'inferiorità della donna
rispetto all'uomo, perché grazie a Ketty, che conosce i fatti
per averli osservati dalla parte degli americani e degli indiani, il
candido Honus riesce a liberarsi dei pregiudizi, ad opporsi allo sterminio
e ad accettare le conseguenze del suo disobbedire. Il comandante invece
è un folle che non sente ragioni, non considera che nel campo
ci sono anziani, donne e bambini, La sua decisione da manuale è
lo sterminio e non sono previsti cambiamenti. Nel campo della crudeltà
non sono ammesse differenze tra ideatori ed esecutori, tra teorici e
pratici."Ho solo eseguito gli ordini" o "ho dato semplicemente
gli ordini" si equivalgono, appartengono ad un agire crudele. Non
esiste una maggiore o minore responsabilità. Sottolineando l'indiscriminatezza
dello sterminio bianco e la necessarietà di quello indiano, Nelson,
sembrerebbe propendere per una visione morale a favore dei pellirossa;
in realtà, mostrando le scene in cui si indugia sulla mutilazione
dei corpi da entrambe le parti, evita di cadere in un manicheismo al
contrario. Del resto, anche nel mito indiano, quando il Grande Spirito
creò gli uomini, fabbricò tre statuette d'argilla, di
cui la più perfetta e di giusta cottura risultò quella
di colore rosso, mentre la bianca e la nera portavano il marchio dell'imperfezione.
Nella crudeltà è necessaria un'inversione immaginaria
della colpevolezza, che porta gli assassini ad essere dei giustizieri
e le vittime la causa.
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