il Mestiere delle armi

Il cinema, la guerra
di Luca Persiani

  Italia / Francia / Germania / Bulgaria, 2001
di Ermanno Olmi, con Christo Jivkov, Desislava Tenekedjieva, Sandra Ceccarelli, Sasa Vulicevic, Sergio Grammatico


E' curioso come un film che racconta il viaggio verso la morte di un uomo si intitoli Il mestiere delle armi, quasi fosse un commento intinto nell'understatement che sta lì a dire: "la guerra è una performance da artigiano e contemporaneamente un modo di vivere, nonché di morire". La cosa è meno curiosa se la si inquadra nell'ottica della produzione filmica: il cinema, come la guerra, è un mestiere prima che un'arte, una abilità che bisogna padroneggiare prima ancora in senso produttivo che estetico. Con le dovute proporzioni, Olmi sposa la visione del cinema coppoliana, che durante Apocalypse Now si trovava a fronteggiare, appunto, una guerra estetica e produttiva per affermare la sua visione. Olmi non ha certo i problemi e le manie del regista americano, ma tutte le sue scelte portano in bella evidenza la capacità di far funzionare la gracile e poco gioiosa macchina-cinema italiana al suo meglio.
Il che vuol dire imporre la necessità di creare certe immagini e certi ritmi, cosa che a conti fatti -è il caso di dirlo- significa spendere dei soldi (e non pochi) per la cura estetica del proprio progetto. Pochi autori contemporanei italiani riuscirebbero a mettere in piedi, portare a termine e perfino distribuire con un certo successo un film denso, pesante ed intenso come questo. A partire dal protagonista Giovanni delle Bande Nere fino a qualsiasi personaggio di contorno, Olmi si preoccupa di cercare facce e corpi che da soli segnino la pellicola, e si impegna, cosa non meno importante, a fare in modo che questi volti si iscrivano in un progetto narrativo e visivo che non solo li contenga ma, in qualche modo, li incornici, con una dignità e una pittoricità che è solo apparentemente statica. E qusto è forse il senso dell'affollatissimo inizio del film, girandola di presentazioni di caratteri che travolgono lo spettatore oltre la necessità narrativa (anzi, creando non poca confusione). E' una scelta che Olmi si concede perché riesce a comunque a coinvolgere cesellando perfettamente un mondo che "sta passando", un mondo cinquecentesco per molti versi ancora in movimento dal Medioevo al Rinascimento, dove le armi da fuoco sono una novità quasi sleale e gli eroi ambigui ma forti muoiono mentre il potere continua a giocarsi ad altri livelli. Una visione precisa, nitida, e contemporaneamente (e come aspettarsi altro) priva di qualsiasi glamour "tradizionale" (ma fitta dell'originale glamour cupo e duro di un film che comunque sa distinguersi perfettamente dalla sciatteria che ha intorno), dove anche l'irrinunciabile retorica olmiana sul sacro passa con cupezza ombrosa (l'episodio del cristo bruciato), bagnata dall'oscurità dei luoghi ripresi dalla splendida fotografia di Fabio Olmi.
Ma Il mestiere delle armi è anche un film sulla giovinezza interrotta e sulla mancanza di senso di questa interruzione. Nonostante la densità di sovrastrutture sociali che giustificano la morte e il sacrificio (la religione, il potere, l'arte), Giovanni muore a 26 anni con negli occhi una donna, cercando di trattenere fino all'ultimo gli spasmi della vita che per lui (e, attenzione, non necessariamente per Olmi) non può risolversi che qui, ora, nella poesia viva della carne, del sangue e della realtà.