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una Lunga domenica di passioni

Coraggio e viltà
di Paola Galgani

 
  Un long dimanche de fiancailles, Francia/USA, 2004
di Jeanne-Pierre Jeunet, con Audreu Tautou, Gaspard Ulliel, Jean-Pierre Becker, Dominique Bettenfeld, Julie Depardieu


Jeanne-Pierre Jeunet, il regista de Il favoloso mondo di Amélie, ha scelto di condividere il sogno che coltivava da più di dieci anni con gran parte degli originari “compagni di viaggio”, a partire dalla protagonista Audrey Tautou e dall’autore Guillame Laurent, fino a Dominique Pinon, Rufus e Jean-Claude Dreyfus. Stavolta però si tratta di una grande storia d’amore che sfocia nel noir, il tutto immerso nell’atmosfera della Prima Guerra Mondiale. È un tema da cui il regista era attratto sin dall’adolescenza, quando, affascinato dai racconti di un vecchio prozio, decise di andare a visitare l’inquietante ossario di Douaumont: ad attirarlo era in particolare la vicenda dei soldati francesi giustiziati per autolesionismo durante la Prima Guerra Mondiale, una parte di storia che i francesi vorrebbero decisamente dimenticare. Dunque, quando dieci anni fa Jenuet lesse il romanzo di Sèbasten Japrisot, iniziò a coltivare il sogno di trarne un film: oggi che il progetto si è realizzato, il lungometraggio, prodotto dalla Warner France, costato 46 milioni di euro e candidato a due premi Oscar, pur se interpretato da attori francesi la Francia si ostina a considerarlo piuttosto americano.
La storia è quella di Mathilde, ragazza bretone testarda e affascinante nonostante il destino non sia stato affatto tenero con lei: oltre ad averle strappato i genitori in tenera età, l’ha resa zoppa a causa di una poliomielite infantile. In compenso, però, ha due zii che la accudiscono teneramente e soprattutto ha l’amore nelle vesti dell’amico d’infanzia Manech, un guardiano di faro sognatore e ingenuo. Quando scoppia la Prima Guerra Mondiale, la coppia un po’ bizzarra è costretta a dividersi e Manech parte per la Somme con il cuore gonfio. Mathilde non riceve più sue notizie fino a due anni dopo, quando viene a sapere da un sergente che il ragazzo, non pensando che a lei e non sopportando più la vista delle trincee, aveva deciso di farsi sparare ad una mano per poter tornare a casa. Ma, com’era prevedibile data la sua ingenuità, era stato subito scoperto e di conseguenza sottoposto ad un sommario processo per autolesionismo insieme ad altri quattro soldati colpevoli dello stesso delitto: con loro era stato abbandonato tra le trincee e dato per morto. La ragazza però si ostina a non credere alla sua morte, ed inizia così una disperata e intricatissima indagine per ritrovarlo o almeno per scoprire la verità definitiva su di lui e sui suoi compagni. Se il film si apre con spettacolari immagini di guerra, che richiamano capolavori come Orizzonti di gloria, Salvate il soldato Ryan nelle scene di bombardamento e nel sonoro, All’Ovest niente di nuovo nelle carrellate nelle trincee, e soprattutto La vita e nient’altro di Bernard Tavernier nella scelta della narrazione dal punto di vista femminile, nella seconda parte l’atmosfera prende tutt’altra piega sfociando decisamente nel noir. Attraverso la voce eterea ma sicura della stessa Mathilde, che ci presenta la sua realtà fatta di un’originale visione della vita e di un’incredibile caparbietà che la guida contro il mondo intero, ci avventuriamo con lei in questo mondo fatto di soldati sognatori, di furfanti dal cuore buono, di prostitute vendicative e di avventurieri senza scrupoli, attraverso un’articolata indagine che coinvolge non più soltanto la vicenda personale di Manech ma un’intera nazione.
Un’accuratissima ricerca storica ha preceduto la lavorazione del film, aiutata dalla precisione filologica già presente nel romanzo. La scelta di ambientare la storia proprio nel 1917 (l’anno della rivoluzione russa) è particolarmente significativa, in quanto in quell’anno cominciò a serpeggiare negli animi di tutti i fronti uno smarrimento di massa, e con esso il sospetto che i soldati fossero stati buttati dalle rispettive patrie su un fronte impossibile, in cui non avevano la possibilità di agire in quanto parti di un ingranaggio più grande di loro. Da qui un nascente desiderio anarchico, incarnato nella storia dal soldato che aiuta Mathilde nell’ultima parte dell’indagine, sonoramente schiaffeggiato dalla stessa quando osa inneggiare all’anarchia. Simbolici di questo stato d’incertezza gli inquietanti scambi di persone tra i vari personaggi secondari di cui Mathilde segue le tracce, che riflettono la storia vera dei tanti soldati che si appropriavano delle identità dei morti per scampare al pericolo di essere ritrovati, destinati a vivere per sempre una vita senza nome. E così anche la sorte dello stesso inconsapevole Manech sarà quella di tornare serenamente in un limbo simile a quello dello stupore infantile.
Il film è ricchissimo di scenografie d’impatto, con numerosi effetti digitali; eccezionale la ricostruzione delle fangose trincee della Grande Guerra, per merito della scenografa Alihe Sonetto e del fotografo Bruno Delbonnel, che lavora con Jenuet da ben 25 anni. In particolare la “terra di nessuno” dei prigionieri è la vera incarnazione del nulla che avvolge questi spettri senza più nome ed altrettanto spettrale la sua anticamera, beffardamente indicata da un nomignolo che somiglia a quello di un parco giochi. Splendide anche le altre ambientazioni, dal vertiginoso faro-regno del piccolo Manech, allo scorcio di Parigi dove la giovane donna si avventura da sola, noncurante della sua infermità, fino al paesino in cui vive con gli zii, caratterizzato in maniera più tradizionale ma in cui non mancano pure e gradevoli macchiette come quella del buffo postino.
Gli altri personaggi invece hanno sempre una forte identità, da una strepitosa Jodie Foster, perfettamente a suo agio nel ruolo di una moglie di un soldato spinta dal marito tra le braccia del suo migliore amico pur di poter tornare dal fronte, alla prostituta, novella Giovanna d’Arco, ghigliottinata per aver voluto vendicare il suo uomo, fino al comandante senza scrupoli che riceverà un’orrenda punizione.
Bisogna dire che il fantasma di Amèlie si aggira ovunque, a partire dal modo di muoversi della giovane attrice, che pure cerca di allontanarsi dal ruolo che le ha dato la fama: basti pensare ai piccoli rituali scaramantici che accompagnano le sue giornate, o al modo ironico in cui vengono narrate la sua nascita e la sua infanzia. Ma soprattutto la fotografia netta e pulita richiama irrimediabilmente il mondo di Amèlie, e così finisce che perfino i bei i titoli di coda con le foto “antichizzate” dei vari personaggi fanno venire in mente i frammenti delle foto che la stramba ragazza ricostruiva con cura. E in fin dei conti, lo stesso è lo stato d’animo, totalmente originale rispetto al resto del mondo, che guida questi due personaggi che del loro candore fanno una corazza contro le avversità della vita.