Kinski, il mio nemico più caro

Il furore del Dio Uomo
di Luigi Porto


Nuovo cinema tedesco
  Mein liebster Feind, Gb / Germania / Finlandia / USA, 1999
di Werner Herzog, con Klaus Kinski, Werner Herzog

Jeans e camicia “a sbruffo”, pioggia di capelli biondissimi sulla fronte che si aggrotta ma non nasconde la sua imponenza, occhi spiritati. Un microfono in mano, un palco immenso e buio. Volano insulti, urla, bestemmie bibliche, invocazioni dalle sfumature sabbatiche. “Io non sono il Cristo della chiesa ufficiale. Quello che va a braccetto con i nobili. Io sono il vostro Cristo”. “Quando qualcuno cerca di contraddire il Cristo questi lo prende per il collo e gli rompe il muso”. Il pubblico è ammaliato, si agita. Non è di fronte ad una quarta parete teatrale, è completamente illuso di essere di fronte alla Storia. “Come un regista dirige una compagnia, noi dirigeremo la Storia”, diceva d’altra parte lo stesso personaggio accigliato, truce e drammatico stringendo una scimmietta tra le rozze falangi in Aguirre, furore di Dio: il suo nome era Klaus Kinski.
Abbiamo imparato a conoscerlo e a temerlo in Nosferatu, phantom der Nacht, in Paganini, qualcuno lo conosce per qualche B-movie come l’italiano La bestia uccide a sangue freddo. Chi l’ha conosciuto più di tutti è Werner Herzog, il regista romantico per eccellenza, lo spirito teutonico che ha immortalato nella macchina da presa l’umanità tormentata e contraddittoria figlia diretta di Kafka e delle anime espressioniste, l’esteta che sapeva rendere immortale e sacrale qualsiasi movimento dell’animale uomo. “Conobbi Klaus Kinski durante la mia adolescenza. Lo vidi impersonare un crudele tenente nazista in All’est si muore: ricordo in particolare la scena in cui il suo personaggio si risveglia (da un assopimento temporaneo sul tavolo, ndr), il goffo gesto delle spalle e la smorfia del viso di Klaus hanno influenzato tutto il mio cinema”. “In seguito venne ad abitare nella pensione dove io stavo con la mia famiglia. Il giorno stesso del suo arrivo si chiuse in bagno. Restò lì dentro per tre giorni, noi udivamo sovente urla incredibili. Quando uscì aveva ridotto tutto in mille pezzi”. In Mein liebster Feind Herzog descrive la bestia germanica Kinski, il dandy paradossale, estremo, violentissimo. “Prima di venire da noi abitava in un monolocale che aveva completamente ricoperto di foglie morte. Quando arrivava il postino lui, strisciando sulle foglie, andava nudo a ritirare la posta”.
Il rapporto Kinski-Herzog da subito andò al di là del professionale, forse perché nacque prima sul piano umano. Herzog fu influenzato da Kinski per la sua sferzante ed esplosiva umanità/bestialità. Innumerevoli sono le reciproche minacce di morte, inenarrabile è il rapporto con la morte stessa e la sofferenza che imperversava sul set dei film, opere che, in un contesto quasi wagneriano, si confondevano con la vita stessa. Come in Fitzcarraldo, girato nella giungla alle prese con i terribili serpenti chuchupe. “Girammo alcune scene di Fitzcarraldo durante le riprese di Aguirre. Se lui non accettava la parte avrei dovuto interpretare io il personaggio principale. Klaus, dopo aver letto il mio copione, venne da me urlando, sembrava nervosissimo. Invece voleva dirmi che Fitzcarraldo era lui, era solo lui, nessuno sarebbe stato al suo livello. Diceva che io non conoscevo Fitzcarraldo come lo conosceva lui”. O come nel kolossal Cobra Verde, sempre girato nella giungla, dove Kinski è nei panni di un trafficante di schiavi. “Klaus volle salire con me sulla nave che era completamente in balia delle rapide. Se sali tu salgo anche io, se affondi tu affondo anche io, mi disse. Avevamo impiegato undici giorni per fare mezzo chilometro controcorrente”. La nave di Fitzcarraldo, che i protagonisti con l’aiuto degli indios trascinano su per la montagna, è la sfida stessa dell’uomo nei confronti della natura. E lì, nella giungla, la natura è un arsenale di atrocità, come racconta un giovane Herzog davanti ad una super 8 in uno dei monologhi più belli del film-documentario. “Lo spettacolo del massacro quotidiano scorre come l’acqua. Nella giungla non ci sono suoni felici, ogni grido è un grido di dolore. Gli uccelli gridano di dolore”. Gli stessi uccelli che Pizarro, il fiero e visionario condottiero dei conquistadores spagnoli del sedicesimo secolo in Aguirre, eleva a metonimia della conquista. “Se Pizarro vuole che gli uccelli cadano dagli alberi, gli uccelli cadranno”, dice Aguirre.
Alla ricerca di El Dorado come dell’amore eterno (in Nosferatu), il poema personale di Herzog e di Kinski è la poesia faustiana del mitteleuropeo, la vita messa in gioco per un ideale appartenente all’irrazionalismo tipico di Nietzsche. L’ira di Dio è qui ira dell’uomo, perché Dio e l’uomo in Kinski sono una sola persona. Un dio pazzo, per un amore perduto come in Woyzeck, per un amore dannato e negato come nel memorabile remake del Nosferatu di Murnau, con i suoi colori pastello e la sinfonia della luce nordica. Certo, Herzog è stato legato anche ad altri meravigliosi attori, come l’ex psicopatico Bruno S., il ragazzo del bosco di Jeder für Sich und Gott gegen alle (in Italia L’enigma di Kaspar Hauser) e il giovane protagonista del dramma esistenzialista La ballata di Stroszek (tra l’altro, il film preferito di Ian Curtis dei Joy Division). Ma se Bruno S. era la parte passiva dell’uomo, quella che viene dominata dal caso e dalla natura, Kinski era un disperato Doctor Faustus, nella vita come nel cinema sempre alle prese con un’individualità spiccata, un grido di presenza, di dasein. “Durante una scena di Aguirre - continua il regista - Klaus improvvisamente si rese conto che nel paesaggio lui sarebbe apparso come un puntino quasi invisibile, e iniziò a sbraitare violentemente fino ad arrivare a spaccare una spada in testa ad un altro attore. Per fortuna questi indossava un elmo di scena, che comunque si aprì in due”.
Nel cinema come nella vita, Herzog è il poeta, Kinski il poema. Il poema dell’arroganza propria dell’uomo, della febbre di grandezza, della disperata, immonda ed encomiabile al tempo stesso necessità di lasciare un mattone nel lastricato della vita. L’uomo-animale amato e odiato, estremamente fisico, l’attore shakespeariano che avrebbe frantumato il teschio amletico se l’avesse avuto tra le mani. L’estremizzazione dello spirito romantico che gira centonovanta film senza mai accennare un sorriso, prima di morire solo nella sua casa, nel 1991. Non lavorarono più assieme con Herzog dopo aver girato la scena finale di Cobra verde. In quella memorabile sequenza Kinski è solo, pazzo e ridotto in miseria su una spiaggia al tramonto, osservato da decine di indios silenziosi, alcuni orrendamente storpi. Il suo personaggio, Cobra verde appunto, dopo aver trascinato una nave enorme su per una montagna, muore miseramente tra i flutti cercando invano, tra lacrime di disperazione, di trascinare in mare una piccola scialuppa per fuggire via. “Quella fu la vera morte artistica di Klaus”, racconta Herzog, “erano appena tramontati i suoi ideali con l’ambizioso e quasi impossibile progetto del film su Paganini, che io rifiutai di girare per lui costringendolo così ad occuparsi della regia”.
Paganini non venne su come Klaus voleva. Era il sogno ribelle infranto, la delusione delll’identificazione totale con il Mito (in questo caso il Mito è lo spirito del grande violinista). L’uomo non è riuscito infine a dirigere la Storia come un’orchestra, Faust è morto e Dio con lui.
Cenere era Kinski, e nella cenere brucia.
E quei flutti che lambiscono un corpo oramai goffo e compassionevole, sono le amorevoli e crudeli carezze che l’universo dà ai figli ribelli tristemente domati.