La verità, nel bel film dei
fratelli Jonas e Josh Pate, è un enigma che si complica sempre
di più, un qualcosa di inafferrabile e sfuggente che non appartiene
a nessuno. Mentre quelli che sanno di più, magari per il fatto
stesso di essere colpevoli, cullano nel loro animo segreti indicibili. Gli ingredienti de l'Impostore sono in parte già presenti nel ricettario dei thriller americani più avvincenti degli ultimi anni. Come ne I soliti sospetti, l'interesse è catalizzato dal momento "clou" dell'interrogatorio, dove i ruoli prestabiliti si incrinano e l'indagato si trova incredibilmente ad avere una lunghezza di vantaggio sull'inquisitore. Si crea un clima mefistofelico, sulfureo, nel quale le ragioni del male, del delitto, della psiche deviata, giganteggiano rispetto alla razionalità scipita e ordinata dei rappresentanti delle forze dell'ordine. Quasi una ritirata simbolica della ragione di fronte al caos e all'irrazionale che fanno breccia nell'ordine apparente della modernità. Un po' come negli impressionanti gialli di Fincher, Seven e the Game, nei quali sono rispettivamente l'orrore estremo portato dai delitti di un serial killer e un complotto del quale non si riesce ad intravedere la portata a sconvolgere le vite dei personaggi. Anche ne l'Impostore una morbosità diffusa accompagna lo svolgersi degli eventi, coagulandosi intorno alla maschera straordinariamente efficace di un Tim Roth beffardo e ghignante. Il personaggio straordinariamente interpretatato da Tim Roth ha sicuramente qualcosa dell'alchimista: si consuma nel vizio dell'assenzio, e nel procedere dei suoi ricordi messi a verbale dalla polizia, viene mostrato da una regia attenta alle suggestioni fotografiche e all'ambientazione, in interni caratterizzati da luci soffuse e mobilio ricercato, in locali fumosi, o magari in situazioni ambigue come quella che si svolge nella cabina di un "peep-show". Tim Roth, ovvero il ricchissimo, debosciato rampollo James Walter Wayland, è indagato per l'efferato omicidio di una giovane ragazza, una bella ed ingenua prostituta il cui sorriso mesto è l'unica traccia d'innocenza e purezza, in un film dove anche i tutori dell'ordine hanno parecchio da nascondere. Wayland è sottoposto a pressanti interrogatori da due investigatori, Kennesaw e Braxton, uno duro e perennemente accigliato, l'altro più imbranato e bonario. La strana coppia, ben modellata sui volti di Michael Rooker e Chris Penn, cerca di stanare la propria preda con l'ausilio di una minacciosa macchina della verità. L'ironia è sempre in agguato: la triade dei personaggi viene presentata da beffarde didascalie che evidenziano le differenze di I. Q., quoziente intellettivo, e la riuscita negli studi. L'evidente superiorità dell'intelligenza perversa di Wayland mette presto in crisi le false sicurezze dei due investigatori. L'ingombrante macchinario che dovrebbe intrappolare il sedicente bugiardo Wayland diventa sempre più il grottesco e vuoto simulacro di una verità irraggiungibile e sempre rimessa in discussione. Si scoprono gli altarini della vita privata dei due investigatori, che rischiano addirittura di essere ricattati e di vedere clamorosamente ribaltarsi i ruoli di preda e cacciatore. La regia accompagna questa trama avvolgente giocando con l'intensità dei primi piani, valendosi di riprese suggestive e carrellate ipnotiche che saldano la semioscurità degli ambienti agli enigmi racchiusi nei volti: un compiacimento finanche eccessivo che talvolta prevale sulla resa di una sceneggiatura originale, per quanto a volte sottomessa alla trovata ad effetto come nelle turbinose e avvincenti sequenze finali. La verità è come l'ombra della ragazza che passeggia nel parco, ignara del suo assurdo e violento destino. Come lei sparisce nella notte e si dissolve nell'oscurità. |